Quando mi regalarono “la recherche”, nella traduzione di Matalia Ginzburg, quasi mi venne un colpo: tutti quei tomi, di non meno di quattrocento pagine scritte fiffe fitte e senza figure?! Mi chiesi se portessi mai essere in grado di trovare la voglia, il tempo, la sadia giusta; mi domandai anche il motivo per il quale tale dono mi venne fatto, perchè dell’opera di proust io mi ero fata un’idea molto impegnativa. Che fosse una lettura da esibire? Lasciai languire i volumi per qualche tempo indaffarata com’ero a vivere “concretamente” la mia giovane età, tra studi, amori, nuove case, nuove città, amici, lavori ed esperienze varie, e quasi, della ricerca me ne dimenticai. Ma i libri, si sa, sono duri a morire e hanno una capacità fenomenale di non dare mai fastidio: dove li metti stanno e non si lamentano mai, nemmeno se li dimentichi per anni accatastati tutti storti; inoltre non fanno differenze: il mio Proust è stato a lungo vicino a un volumetto di Liala (e chissà quante cose si sono raccontati…). Poi, una bella volta ho aperto un volume a caso e da allora non ho più smesso. A volte leggo tutto di un fiato, sottolineo, scrivo appunti, altre volte, invece solo qualche riga. Poi magari passano settimane o mesi nel silenzio, ma le parole lette capisco che non sono vane. “Se il ricordo fa respirare aria nuova, è nuova perchè è un’aria già respirata un’altra volta”. Mi capita, in certi frangenti, quando bevo una “cup of tea”, di ritrovaremi nella descrizione delicata che fece l’autore. Cosi’ come, allo stesso modo, riaffiora la signora Cambremer quando spiega che “ho orrore dei tramonti, fa romantico, fa melodramma. Per la stessa ragione detesto la casa di mia suocera, con le sue piante del Mezzogiorno: vedrete, sembra un parco di Montecarlo”… A me, invece i tramonti piacciono molto.