Avevo una segreta speranza: non dover prendere io la decisione. Le donne, mi dicevo, hanno già un sacco di responsabilità rispetto al fatto di mettere al mondo un figlio, mi sentivo un biblico peso sulle spalle: la continuazione della specie. E poi c’era quel fatto dell’ingiustizia nei confronti dei maschi: come mai solo a noi l’esclusiva della maternità? Io conosco tanti possibili “mammi” e tante improbabili “babbe”.
Guardavo Gian dormire come un angioletto. Lui sì che sarebbe stato un mammo perfetto, così sereno e disponibile, così presente e attento; mi vedevo già a lottare col piccolo per non perdere le sue attenzioni, il suo abbraccio morbido.
In quei giorni eravamo al mare e avevo sempre voglia di fare l’amore. Non usavamo precauzioni già da un anno; Gian si limitava a spiccare un breve e puntualissimo volo che ogni volta un po’ mi faceva tirare un sospiro di sollievo, un po’ mi rattristava. Non riuscivo a dirgli di restarsene dov’era perché non volevo essere io a decidere.
Anche l’anno scorso ero al mare, c’era il sole, caldo, la voglia di fare l’amore, la stessa situazione sentimentale; eppure ad avere un bambino neanche ci pensavo. Lo volevo. Ma non subito. Anche Gian voleva un figlio, ma a lui i desideri non si concretizzano, come a me, tutti di colpo e, di colpo, diventano urgentissimi. Così una mattina facevo il bagno con una mia amica un po’ psicologa e le spiegavo che non riuscivo a dire a Gian di non spiccare più il volo; che volevo che decidesse lui da solo, che si imponesse, proprio lui mai prevaricatore e prepotente. Ma la mia amica scuotendo la testa mi tolse ogni illusione “non puoi aspettarti questo da lui, un uomo non prenderà mai una decisione, sono codardi, fuggono dalle responsabilità” ecc. ecc. Dall’amarezza mi arrotolai dieci volte nell’acqua richiamando l’attenzione di Gian che corse preoccupatissimo, lo guardai fisso nell’occhio destro sperando di comunicargli il mio desiderio, ma Gian non sopporta di essere guardato così nell’occhio destro e si arrotolò nell’acqua anche lui.
Quella notte Gian non spiccò il volo ed io piansi due lacrime di felicità. Al ritorno a casa ebbi l’ennesima sensazione dell’unione tra mente e corpo: il mio organismo pareva infatti aver registrato il desiderio di bambino e si predisponeva ad accoglierlo. Per due mesi il mio corpo ha ospitato feste di ormoni: il seno mi faceva male, mi girava la testa, avevo le scalmane come le donne incinte, ma non lo ero ancora; il corpo si stava semplicemente organizzando in un efficientissimo comitato di ricevimento.
Il bambino si è insediato con tutte le sue forze dentro di me, secondo il vic (il ginecologo) il 20 settembre, secondo Gian quando abbiamo inaugurato le lenzuola di Sybilla, quelle con l’edera che sale sulle federe e secondo me quella volta che, trovandoci in una posizione curiosa, Gian rimase imprigionato e io morivo dal ridere anche perché, come al solito, lui non si scomponeva.
Dopo un giorno di ritardo sono andata a comprare il test in farmacia, senza dire niente a nessuno; guardavo esterrefatta la farmacista perché avevo immaginato molto solenne il gesto dell’acquisto del predictor ed invece per lei era come vendermi delle pastiglie valda. Sono corsa in ufficio, dove, per fortuna, fino alle 9.30 sono da sola ed ho fatto il test in bagno. Sono rimasta seduta sul water a guardare quell’aggeggino in un punto preciso che, se il test risulta positivo, dovrebbe diventare rosso. Lo guardo così fisso che ho paura di avere le visioni, mi si storcono gli occhi, le mani gelano, le guance bollono … rosso ROSSOOO AIUTOOO. Sempre senza cambiare posizione rido, poi piango, mi stropiccio le guance, riguardo quella specie di pennina, voglio qui subito Gian, con tutti i miei amici, no, non voglio nessuno, non lo dico a nessuno. Rimango in queste condizioni e in bagno fino alle 9.30, quando arriva la segretaria. Esco tenendo la pennina test come se il bambino fosse lì dentro, totalmente incapace di credere che sia dentro di me.
Paola, la mia socia, non arriva e io salto sulla sedia dall’impazienza, finalmente si presenta, con i suoi occhialetti da bambina e la borsa a tracolla, di traverso. La guardo, mi guarda con le sopracciglia aggrottate e le comunico, senza cerimonie “siamo incinte”. La socia è, per così dire, mia moglie, passiamo assieme otto/dieci ore al giorno da più di 3 anni, più che in buona armonia, in realtà io amo sentirmi indipendente e credo di essere la prima della classe, ma quando lei non c’è sono a pezzi e non riesco nemmeno a chiedere un preventivo per i biglietti da visita. La socia sorride strana, arranca fino alla sedia (in ufficio ci sono 3 stanze ma noi occupiamo la stessa, ai due lati di un’imparziale scrivania quadrata degli anni ’40), lì rimane (con la borsa a tracolla, gli occhialetti) e dice “naaaaaaaa”. Per Gian non riesco a confezionare la notizia come nelle pubblicità, riesco a resistere fino a quando mi viene a prendere e, nell’ascensore, gli do la polaroid (la prima di una lunga serie) che Paola mi ha scattato in ufficio, col predictor in mano e gli occhi storti. Gian la guarda con attenzione, calza un grandissimo sorriso e non parla, neanche io so cosa dire; in certi momenti, quando le emozioni sono così forti, è meglio stare zitti e gustarsi il momento. Ringrazio Dio che Gian sia come me. Fisso la visita dal Vic che risponde alla notizia con un tono elettrizzato, alla prima visita mi fa vedere il bambino con l’ecografia. E’ grande come un fagiolo con una pallina al centro, che sarebbe il cuore, che fa pif pif pif. A casa disegno per Gian quello che ho visto sul monitor e da quel momento il bambino, fino alla nascita, si chiamerà Fagiolo.
© Ludovica Amat, riproduzione vietata