Archivio dell'autore: Ludovica Amat

Informazioni su Ludovica Amat

Scribacchina per passione, campa risolvendo problemi di comunicazione ad aziende e persone, prediligendo chi produce alimenti e bevande.

L'entrata in Santiago

Le guide descrivono l’entrata a Santiago come un epilogo impietoso, io mi sono ormai abituata a tutto e non sto a far la difficile, vado di buona lena, con la testa vuota che altalena tra
l’euforia dell’arrivo e il dolore di concludere l’avventura.
entrando in città mi sento il cuore a posto, le emozioni già tutte vissute, immagino che quel
che c’era da piangere è già stato pianto ed invece, inaspettatamente, quando da un vicolo buio
svolto nella Piazza della Cattedrale mi attacca un ciclone, quella cosa lì che mi scuote forte
come per svegliare uno che ha perso i sensi, l’onda è in arrivo procedo a testa bassa verso la
parete di fronte alla Cattedrale, che non ho il coraggio di guardare, mi attacco al muro di
fronte e mi nascondo la faccia con le mani come per nascondino, non può finire qui. mi giro
finalmente verso la cattedrale, enorme e pazzesca, mi schiaccia contro il muro, striscio con la
schiena fino a sedermi per terra, piangendo e ridendo, soprattutto ridendo.
Una ragazza di fronte a me, con abiti civili mi guarda con un’espressione indecifrabile e mi
scatta una foto, tiro fuori la mia macchinetta, identica alla sua e le faccio una foto anch’io,
simultaneamente.
Infine giro la macchina e fotografo me, l’obiettivo cattura un occhio a casaccio, dove c’è dentro
tutto, migliaia di passi, disperazione, felicità 

i bambini e il papà di tolosa

sentivo il bisogno di condividere con qualcuno, anzi con molte persone, il dolore per quello che ra successo a tolosa e per tutte le sue implicazioni, ma non sentivo nulla di organizzato, allora l’ho scritto su facebook e subito un’amica ebrea mi ha risposto che l’indomani, giovedì pasato, in sinagoga a milano ci sarebbe stata una commemorazione e che era aperta a tutti. ve lo volevo raccontare, all’inizio ero un po’ infastidita fuori dal vociare, dai flash, un po’ di aria da evento mondano insomma, poco raccoglimento. una lunga coda, controllo borse, per fortuna. dentro si è riempito subito come un uovo. le donne stavano eccezionalmente giù. era bello vedere dalla parte degli uomini, mescolati tra loro, l’imam e altri religiosi musulmani ed anche nostri sacerdoti. bello il primo intervento, di un giovane, incoraggiante concreto e p&œlig;tico assieme (gettare semi al vento fa fiorire il cielo) poi più istituzionale ma solido l’intervento di jarach, poi pisapia decisamente deludente, leggeva e mi è risultato abbastanza chiaro non sapesse che l’insegnante ucciso era anche il padre dei 2 bambini, mi ha innervosito, anche che leggesse. molto meglio l’intervento di Podestà, anche se continuavo a pensare (ma è inquisito anche questo qui?). ma quello che aspettavo è arrivato con il Rabbino, toccante, incisivo, profondo, nessuna parola buttata al vento. sembrava l’unico ad avere di fronte l’immagine della bambina rincorsa ed uccisa. una bambina. anche lui in quel momento, come me e come tutti, ha pensato a tutte o a una bambina, che conosce e alla quale vuol bene, di quella età, che viene rincorsa ed uccisa con un colpo di arma da fuoco. non riusciva a pronunciare quelle parole, si fermavano nel pianto di padre. le parole, diceva non le trovava, non c’erano e quindi le avrebbe affidate alla Bibbia, ai Salmi. Senza nessuna retorica ha proceduto nel suo intervento, sul tema dell’odio, senza che nulla di quello che pronunciava fosse di più, di troppo, di prevedibile. poi le preghiere, prima alcuni Salmi cantati da dei signori che immagino siano delle famiglie più importanti, era strano e bello sentire quella lingua che poi sarebbe quella che parlava Gesù, infine la preghiera commemorativa per chi muore. tutti insieme possiamo, dobbiamo farcela, lì ne avevo certezza, e anche sulla strada di casa.

In cammino verso Santiago/11

Il giorno prima di arrivare a Santiago mi assale una strana paura del bosco dopo che vedo la carcassa di un cane ripulita a puntino, ne ho incontrati di cani (l’idea del cane randagio era una delle mie paure iniziali, smussata quando ho saputo che in spagnolo si chiamano perros vagabundos, ne ho incontrati ma non li guardavo e se mi venivano incontro battevo più forte i piedi ed il bastone per terra o abbaiavo). Lì però mi viene paura e chiedo a Nonsochi di non star sola, compaiono lontane tre figure, accelero e mi accodo a tre donne ed un uomo di una certa età, hanno addosso mantelli per la recente pioggia, fatti coi sacchi della spazzatura che svolazzano e li rendono un po’ surreali, procedono in silenzio, penso che gli angeli custodi vanno bene anche brutti e sgraziati. Anzi. Loro non mi degnano di uno sguardo. Appena vedo il primo cartello stradale che indica la vicinanza (tanto poca che domani sarò lì) con Santiago comincio improvvisamente a singhiozzare, le braccia appese al mio bastone. I quattro mi si fanno intorno, in silenzio, piccolo presepio dall’umanità, io sovr&ælig;sposta, senza vergogna. Quando ho finito il cerchio si rompe e ricominciamo a camminare, io dietro, leggera e riconoscente.
Arrivo tardi quella sera e non trovo posto per dormire, chiedo in un bar di poter dormire lì, con la testa sul banco come all’asilo, ma non me lo permettono. Fuori dalla grazia di Dio devo optare per un tre stelle che vedo sulla statale. Sono impresentabile. Arrivo alla reception, la signorina non si scompone e mi assegna la stanza. Rido da sola, non ero preparata a questo lusso dopo tre settimane di letti a castello, pavimenti di cucine di case poverissime, cartone come materasso in una palestra, ho dormito anche sulla panca di una chiesa. Butto tutto per terra e mi metto a saltare sul letto, mi fermo perché penso sia indecoroso morire in questo albergo con l’osso del collo spezzato, dopo tanta fatica. Riempio la vasca di acqua calda e penso che è bellissimo arrivare a Santiago dopo un bagno caldo. Faccio le acrobazie per entrare, non posso mettere i piedi nell’acqua calda, ho perso le unghie degli alluci e voglio tenere i piedi sempre al fresco, l’operazione è difficilissima, ma poi riesco, mi sento come nuova, ceno nel ristorante dell’albergo con gli unici vestiti decenti: un paio di bermuda marroni e una maglietta viola di cotone, tutto stropicciatissimo, ai piedi i sandali comprati ad Estrella, con gli scarponi non ce l’ho fatta che mi hanno spaccato le unghie così ho comprato questi da prete ma tecnici, di due numeri più grandi perché non c’era altro, però funzionano benissimo.
Mi spiace dormire da sola l’ultima notte senza le russate/ragliate degli uomini e le docce interminabili delle donne, condividere l’emozione dell’ultima partenza, ma questa storia comincia dalla ricerca di una nuova me, che sappia anche camminare da sola, e così va festeggiata, mi ordino piatti di pesce ed un discreto chardonnay, me ne bevo mezza bottiglia e vado a dormire felice.

In cammino verso Santiago/10

Mancano un centinaio di chilometri a Santiago, forse da troppo tempo non parlo con nessuno, mi sento troppo chiusa, mentre penso questo mi fermo a una fonte, arriva un tizio ma sono troppo orso e non tiro neanche su la testa, gli guardo la caviglia e la riconosco, l’ho già avuta davanti e mi aveva colpito per come era sottile. Il tizio comincia a parlare, io non ne ho voglia,
mi dimentico che ho chiesto di poter parlare con qualcuno un minuto fa a dio o nonsochi e che su questa strada tutte le preghiere sono esaudite. Il tizio parla solo spagnolo che non ho studiato ma ho nel sangue, parlo inventando le parole, leggo libri e giornali capisco tutto, con l’inglese invece è un muro, ho speso anche dei soldi ma non mi piace, non mi rimane nulla. Il tipo mi dice che è un maratoneta. Gli dico di andar pure, che non ho nessuna intenzione di star dietro al suo passo, vado piano io, decidono i miei piedi, mi fermo spesso, quando mi pare, lui insiste e dice che anche lui vuole andare così, che ha corso troppo. Che palle. Dopo cinque minuti che seguo le sue caviglie mi ricordo il desiderio che avevo espresso, allora dev’essere un angelo mandato per me e forse nelle caviglie ci sono le alette, sembra abbia sentito si gira ed allarga un sorriso magnifico. Bene fratello, allora si cammina un po’ insieme. Arriviamo tra rade chiacchiere e molti silenzi in un rifugio povero e bellissimo, ci sono gli ultimi due letti a
castello nel dormitorio del sottotetto, lavo le mie cose e mi siedo al fresco, faccio amicizia con gli altri lì a godersi il pergolato e il mio amico arriva con una caraffa di birra fresca ed un panino alla frittata per me, non è male avere anche compagni di viaggio, in effetti. A cena minestra all’aglio offerta dall’hospitalero e sveglia alle 5 con l’Ave Maria di Schubert a palla, mi scoppia il cuore di felicità. Ricordo solo un altro risveglio così, in toscana quasi 30 anni fa, il padrone di casa mi aveva svegliato con Pat Metheney 80/81, qualche battito l’avevo perso ma gliene sono ancora grata.
Il mattino si riparte insieme ma io rallento e lo lascio andare, voglio salire da sola al Cebreiro dove successe il miracolo del calice, sentirmi come il contadino di molti secoli fa che sale nella tempesta solo per tener fede ai suoi propositi ed il prete pensa, maligno, che sia solo per avere il pane ed il vino della comunione tanto è povero e poi, la leggenda dice, i mali pensieri vengono puniti, così dal calice sgorgò sangue e si urlò al miracolo e ora prete e contadino sono sepolti a fianco ed il calice è in un piccolo tabernacolo e io lo guardo trasognata. 

In cammino verso Santiago9

In Galizia conosco, oltre a un daino che sbuca senza rumore da un cespuglio e ci guardiamo entrambi sbigottiti e io mi sento uguale a lui tranne che per essere proprio come lui vorrei non avere i vestiti che in quella situazione mi fanno sentire ridicola, in Galizia conosco la pioggia, temuta dal primo giorno. Dopo un iniziale smarrimento me ne faccio una ragione e cammino tre giorni interi sotto un’acqua torrenziale, guadando le pozze fino ai polpacci e cantando a squarciagola propiziatori “O Soole Miiio”. Visto che fa freddino mi concedo un pulpo gallego ed un chupito di birra per pranzo. Che bellezza mangiare perché si ha fame, dormire perché si ha sonno, farla nei prati, spaventare -abbaiando- i cani che fanno i bulli.
Mi sto trasformando in highlander, oggi in salita ho superato due omoni giganteschi, gli stavo dietro da un po’, senza pensare, sentendo la musica dello zaino, poi mi ha preso una cosa che non mi piglia mai (ho smesso di giocare a tennis perché quando stavo per far punto sbagliavo apposta per non battere l’altro) ormai sono un uomo fatto e finito, cioè sportivamente competitivo, miro l’obiettivo, prendo aria dal naso e la filtro nella pancia lenta lenta, è come far benzina, vvvai, cambio marcia e supero gli omoni falcando l’aria a testa alta, fischiettando O mia Bela Madunina.

In cammino verso Santiago/8

Il senso di libertà è assoluto, meno male che sono da sola, per farmi compagnia canto canzoni orribili (che ho dimenticato, per chissà quale incantesimo il repertorio decente) e compongo un mio ritmo tra il rumore dei passi, del bastone e dei gingilli portafortuna appesi allo zaino dal mio ex marito (un campanello tibetano scaccia streghe) da mio figlio (un cammellino di legno) che assieme alla coquille saint jaques comprata all’esselunga ritmano il passo in un’incessante jam session. Il primo giorno non riconosco la mia musica e mi giro in continuazione per vedere chi mi stia seguendo.
L’aderenza con la natura è perfetta, dopo una settimana me ne sento parte e non più
spettatore, gli animali non si scostano, non ho orologio perché mi oriento con la luce e col suono delle campane di chiesette invisibili. Impossibile sentirsi soli dentro la natura, è affollatissima.
La prima giornata ho già molti regali dal valicare i pirenei: la nebbia che si arrampica di corsa sui pendii ed entra di persona nei boschi, dei cavalli immensi immobili e trasversali al vento, le criniere sollevate, tre gipeti (mai visto un’ apertura alare così grande e così da vicino in vita mia) che fanno una specie di spettacolo: a turno uno volteggia e gli altri stanno seduti a guardare, io sto immobile ad occhi spalancati, il terzo azzarda di più e nell’ultimo giro carezza l’erba in punta d’ala, non riesco a non applaudire. Poco dopo sono quasi in cima, con pelle e capelli ricamati di pioggerellina dell’atlantico, e vedo in mezzo all’erba ormai rada un caprone in una strana immobilità. Mi appoggio al bastone e lo guardo, lui è di spalle, faccio un fischio, nulla. Di colpo gli si piega una gamba posteriore poi l’altra, faccio un mezzo urlo, merda il caprone sviene, mi viene da andare ad aiutare e invece sto immobile a guardare la morte che si prende questo essere, si piegano le gambe anteriori mi scendono lacrime, ma non è commozione per la morte, è per la dignità di un animale che si è ritirato dal branco ed è lì da solo a prendere l’ultimo vento, alza il mento lo immagino sorridere, respira la pioggerellina e va giù. Io voglio morire così.
Le sensazioni sono primarie: fame vera, sonno vero, caldo vero, freddo mai, dolori che
miracolosamente passano. Mi piace molto mangiare qui, per colazione caffelatte e tostadas nei bar aperti già alle 6 oppure al rifugio con latte, cacao, pane burro e marmellata comprati il giorno prima o offerti dall’hospitalero, poi in cammino solo mela e acqua (oltre alla frutta offerta da contadini rugosi che ti chiedono in cambio di portare la loro preghiera a Santiago), poi a destinazione pane e pomodoro e quello che si trova, ottimo il panino con la frittata calda e l’immancabile birra che mi stona e fa dormire un paio d’ore come un lattante (ad un certo punto con un compagno di viaggio di Leon dichiariamo, a chi insiste a chiederci perché lo facciamo, che la vera motivazione del viaggio è la birra fresca all’arrivo), a cena si cucina con chi si è trovato al rifugio, certe volte faccio il fenomeno ai fornelli certe volte lavo solo i piatti; capita anche di andare nei ristorantini a mangiare onesti menu del pellegrino che non superano mai i 7 euro, roba che a Milano non mangerei neanche sotto tortura.

In cammino verso Santiago/7

Queste le annotazioni, scritte nel tardo pomeriggio, in coda alle operazioni indispensabili (lavare e stendere i vestiti, farsi la doccia, mangiare e dormire qualche ora per poi andare a curiosare dove si è capitati, parlare con la gente, comprare qualcosa da mangiare, andare a letto presto).
Tanto per cominciare è molto più impegnativo il pensiero di farlo che farlo nella realtà. Fuor di banalità per un bipede camminare è molto più naturale che stare seduto e, non avendo null’altro da fare, camminare per sei ore non è un’impresa titanica, ma un modo sensato per trascorrere la giornata. Le cose che succedono sulla strada danno significato all’impresa, è bello andare incontro al proprio significato ogni mattina, a prescindere dal conoscerlo già, intendo.
Anche lo zaino che appare come un inutile martirio in realtà aiuta perché dà stabilità, ho provato a camminare senza e ciondolo a destra e sinistra, a danno dei tendini e perfino della concentrazione, mentre quei 10 chili mi tengono in terra, dritta e presente, danneggiandomi le ginocchia solo se le discese sono incaute, ma salvaguardandomi la schiena da qualsiasi dolore.
La grande sorpresa è stata scoprire il corpo, ero certa che sarebbe stata la mente a portarmi, con la risolutezza che le è congenita ed anche che la stessa mente avrebbe potuto essermi nemica, arrovellata da chissà quali pensieri, nostalgie, paure. NULLA.
Vince il corpo e la mente si arrende, senza condizioni. Il corpo si disfa e ricompone, secondo un’itineranza del dolore: se sono i piedi ad urlare le ginocchia mi lasciano in pace, io cerco di aiutare cambiando mano al bastone, immergendomi in ogni fonte, cambiando le calze, massaggiandomi i piedi, fermandomi all’ombra, mangiando albicocche secche e mele o banane, rinfrescando questo
corpo che comincio a rispettare ed amare e che non tratto più come una carcassa, dedicata semmai ad ammalarsi. Dopo qualche giorno è il corpo a comandare, non esistono più programmi, si asseconda il dolore e si trovano stratagemmi per superarli, la mente è completamente al traino, vispa e svampita, di perenne buon umore. Riesco a sentirlo tutto unito questo corpo, non più a compartimenti stagni, certe volte quando arrivo a destinazione sono così riconoscente che ringrazio tutto fino ai tendini delle dita dei piedi, mi commuovono queste insospettabili gambotte che macinano chilometri e chiedono solo una rinfrescata, due parole di incoraggiamento e un po’ di potassio.

Trovare marito

È l’argomento più dibattuto tra le ragazze dai 30 ai 50 anni che per qualsiasi o nessun motivo non si sono sposate. Non si sa dare risposta di un esercito di donne tutte distintamente, belle, intelligenti, capaci, divertenti, colte, intraprendenti, autonome, “ma” sole, che un po’ci scherzano ma soprattutto ci si tormentano. Che succede? Quelle rimaste spaiate non sono certo le bruttine, le grassottelle, bassottine, un po’ sgraziate, magari non tanto divertenti. No, quelle sono tutte sistemate e spesso molto felicemente.
Virginia Woolf invocava, per la realizzazione delle donne scrittrici, e non solo, una stanza tutta per loro e una rendita di 500 sterline. Bene, ora tutte le spaiate hanno una casa tutta per loro e l’equivalente di una rendita di 500 sterline, vale a dire un lavoro con cui mantenersi, ma in questo passaggio qualcosa è scivolato via. Occorre riflettere. Come è possibile che proprio ora che si ha l’immenso privilegio di potersi sposare per amore, per passione, per follia, e non esclusivamente per necessità come il secolo scorso, l’opportunità di un matrimonio felice alle ragazze belle e in gamba sia sfuggita di mano?
C’è da sperare che la crisi, limitando la possibilità di mantenere una stanza tutta per sé, così come la famosa rendita, offra una nuova opportunità di ripensarsi, ascoltarsi, parlarsi. Innamorarsi, infine.

 

 

 

In cammino verso Santiago/6

Ho un certo pudore a descrivere l’esperienza dal punto di vista delle emozioni, provare a spiegare quell’eccezionale stato di grazia che impregnava le mie giornate, nonostante il dolore fisico e la paura di non farcela. Ero abituata ad una felicità fatta di momenti, lì era diverso. Ho cercato inutilmente spiegazioni tra il chimico (camminare produce endorfine) e il mistico (camminare su una strada calpestata con ugual spirito da mille anni, traccia terrena delle celeste via lattea, non può che predisporre bene gli animi), resta il fatto che l’anno successivo non ho trovato nessuna alternativa valida e poiché mi prese anche una discreta nostalgia sono letteralmente tornata sui miei passi, variando l’itinerario e percorrendo una zona desertica cioè bruciata dal sole che si chiama Mesetas, tra Burgos e Leon, saltata per prudenza la volta precedente. Non ho scritto un diario, solo qualche nota su un quaderno leggero per fissare le sensazioni più vibranti, sperando potessero essere utili a chi si sarebbe messo in viaggio dopo di me. Inutile ricordare che l’emozione non risieda, evidentemente, nel giungere a destinazione, ma nel percorrere passo dopo passo un pezzo di strada, di mondo, di vita, con il privilegio di registrarne ogni respiro.

In cammino verso Santiago/5

Alla registrazione, che avviene nel primo rifugio di St Jean è richiesto di compilare una scheda per chiarire, oltre ai dati anagrafici, i motivi del viaggio. Non sapendo nel modo più assoluto perché mi trovassi lì misi una x su tutti i motivi suggeriti: spirituale, religioso, culturale, sportivo (con un po’ di fastidio per le caselle “religioso” e “sportivo”). Le domande mi misero inutilmente in allarme, nessuno dei miei occasionali compagni mi chiese mai motivo del viaggio né se fossi o meno religiosa. Tolleranza allo stato puro. Tanto più apprezzata quando mi giungeva dai cattolici (facilmente riconoscibili)

che fino a quel momento avevo sempre evitato con fastidio. Cosa fossi non lo sapevo, non lo so, certamente credente, nel senso più ecumenico possibile, con un autentico fastidio per le

organizzazioni di ogni specie ed ancora incredula che esistano esseri umani che si ritengono attendibili quando parlano di dio o, peggio ancora, per conto di dio.

In cammino verso Santiago/4

Per scaramanzia mi organizzai in modo da giungere a Roncisvalle il 25 luglio, onomastico di San Giacomo (Tiago in Spagna), partii due giorni prima dall’Italia con un treno che avrei
cambiato a Nizza e che, viaggiando di notte, mi avrebbe portato a Bayonne, vicino all’Atlantico.
Da Bayonne un ultimo trenino mi avrebbe condotto fino al p&ælig;sino basco di St. Jean Pied de Port, ai piedi dei Pirenei, monti che avrei dovuto valicare il giorno successivo. Partii quindi il 23
luglio con l’emozione a fior di pelle che mi conferiva una persistente aria trasognata, non potevo credere di essere proprio io, lì, da sola, impegnata in un’impresa apparentemente
senza senso, non avendo particolari peccati da farmi perdonare o favori da chiedere (questo è quello che incessantemente mi chiedevano tutti quelli cui raccontavo del mio viaggio).

In cammino verso Santiago/3

Mi allenai sui sentieri liguri di levante, nelle cinque terre, lì mi sentivo di casa e c’era il treno a soccorrermi se ne avessi avuto bisogno. Partivo da Milano la mattina alle 6.30, alle 9 arrivavo
alla stazione di Levanto e da lì prendevo il treno per l’ultima tappa delle Cinque Terre, giunta a destinazione compravo un po’ di frutta e mi mettevo in marcia a ritroso per non avere il sole in
faccia, con lo zaino in spalla. Quando ero sfinita prendevo il treno oppure scendevo a fare un tuffo che mi ricompensava di tutta la fatica. Fu utile per capire l’impatto, per nulla morbido a
causa dei dislivelli piuttosto ripidi e del sole a picco, solo idealmente mitigato dalla brezza. Non ho trovato, né cercato compagni di avventura, determinata a partire da sola per dimostrarmi di
potercela fare, immersa in una sensazione mista tra incoscienza e coraggio, per me del tutto nuova.

In cammino verso Santiago/2

Qualche anno dopo dovetti scegliere come trascorrere le mie prime vacanze da separata, 20 giorni senza figlio e marito, in terrorizzante ed euforica solitudine. La separazione, dolorosa e inevitabile, mi regalava questo programma che mi prese letteralmente la testa quattro mesi prima. Lessi tutte le guide a disposizione, trovai molte notizie su internet, da blog melensi a diari ultra pratici, e mi disposi a partire da sola, io per nulla sportiva né indipendente. Feci un considerevole investimento in attrezzatura: zaino ultra tecnico per tenere la schiena nella postura corretta, ottimi scarponi leggerissimi ma indistruttibili, abbigliamento adatto ad asciugarsi in brevissimo tempo, mi iscrissi anche ad un corso di yoga molto utile per rafforzare la schiena, distendere muscoli ed imparare i vantaggi di una respirazione “consapevole”, capace di soccorrere crampi, paure, dislivelli mozzafiato e insonnia da eccesso di adrenalina.
Lo zaino fu pronto da un mese prima, ogni tanto la sera lo disfavo e riuscivo ad eliminare ancora qualcosa fino ad arrivare all’essenziale: 8 chili, cui avrei aggiunto il peso dell’acqua e della frutta.

Una forma di pane

Se dovessi scegliere da che cosa far rappresentare il nuovo tempo che arriva, sceglierei una forma di pane. Propenderei per la pasta dura, ha una forma movimentata, una crosta dura che fa da scudo a una pasta molto morbida, bianchissima; è un pane che si mantiene buono per diversi giorni e raggiunge punte sublimi, una volta raffermo, a pezzi in una tazza di caffelatte tiepido.
Sceglierei il pane perché è simbolico dell’essenziale che torna alla ribalta. Non più alimento di accompagnamento o decorativo, ma imprescindibile punto di partenza e centro della tavola. Preferirei la grande forma di pane agli eleganti solitari, per ridare senso al gesto di dividerlo con gli altri, godersi le spontanee complicità che sbocciano tra chi preferisce crosta o mollica e… utilizzarne gli avanzi per la prima colazione o per qualche piatto casereccio e saporito.
Il pane torneremo a comprarlo in panetteria, perché riacquisterà un senso il sapere che è fatto a mano da chi, con sapienza e passione, impasta a notte fonda ed ogni tanto a metà mattina appare nel suo negozio, affacciandosi dal retro, con la faccia stanca ma serena, tutto infarinato come il mugnaio delle favole, per vedere le facce di chi compra il suo pane.
Nella mia città i panettieri, che una volta si chiamavano prestinai, sono molto amati e i milanesi che hanno l’attitudine allo “scouting” sono disposti a fare accurate ricerche prima di trovare quello che, a loro insindacabile giudizio, sia “il pane più buono di Milano” (per un curioso miracolo di moltiplicazione il “pane più buono di Milano” risulta poi avere almeno un centinaio di indirizzi diversi sparsi per tutta la città). Michette, arabi, ciabatte, francesine, mantovane, cinesini, biovette, a ciascuno il suo, fragrante e profumato, nel sacchetto bianco o color paglia, che ai più fortunati viene consegnato caldo.
Qual è il vostro pane preferito? A cosa lo accompagnate? Siete anche voi della generazione: pane burro e zucchero?
 

In cammino verso Santiago

Camminare per tre settimane nel nord della Spagna, con uno zaino di 10 chili sulle spalle, una media di 25 chilometri al giorno e diretta ad una Cattedrale barocca, è stata l’esperienza più esaltante della mia vita, se escludiamo quelle nelle quali la presenza di altre persone fu indispensabile. Il desiderio dell’impresa nacque 6 anni prima, il Camino di Santiago era improvvisamente balzato alla ribalta della cronaca e noi, affascinati da nomi come Roncisvalle o Santo Domingo de la Calzada, ci mettemmo in macchina per andare a curiosare. Sceglievamo le tappe alla rinfusa, sfaccendati e poco inclini ai programmi. Sembrò un’idea inutile poiché, comunque, risultavamo sempre estranei ai posti, all’atmosfera. Ho memoria soprattutto dei pellegrini, tutti diversi (se ne incontravano anche sulla strada statale o in autostrada, protetti dal guard rail) in particolare ricordo un vecchio che spingeva una carriola colma delle sue cose e una ragazza che piangeva e rideva seduta per terra di fronte alla Cattedrale di Santiago. Avevamo la stessa macchina fotografica e ci facemmo una foto, simultaneamente. Fu questo l'inizio del viaggio.

Punto a capo

A una lezione di Tai Chi il m&ælig;stro mi spiegò che il senso di una mossa chiave stava nell’accogliere un colpo, inferto da un nemico immaginario, assecondandone il moto e l’energia che lo muoveva verso di me, fino ad accoglierlo, come in una contrazione, rotonda ed enfatica, capace di respingerlo fuori con lo stesso moto rotatorio, ma diverso perché in più avrebbe avuto la mia forza, che lui definiva creativa.
Questa spiegazione sospese in me il giudizio sulla qualità e l’intenzione del colpo in entrata, come se fossero argomenti secondari rispetto al fatto che si trattasse comunque di energia che arrivava, una specie di occasione che poteva ben trasformarsi in qualcosa di buono, se non avessi fatto muro ed se non mi fossi limitata ad incassare. Fu una lezione importante.
Il mio proposito per il prossimo anno è ricordare la lezione, cercare di sospendere il giudizio su quello che arriva e cercare di ritenerlo soprattutto esperienza, energia da accogliere e reinterpretare, creativamente, come ogni corpo e ogni cuore sa fare, pure indebolito. Scrivo cuore anziché testa perché ho scoperto che gli antichi dicevano così, gli antichi saggi, non gente sdolcinata. Decidevano col cuore, e io vorrei tornare anche ad essere un po’ antica.
Sarà un anno interessante, proviamo a sospendere il piagnisteo, ciascuno il sacrosantissimo suo, approfittiamo degli scarti, nel senso di deviazioni, che questo percorso libera per ridefinire le priorità, sappiamo benissimo quali erano quelle che ci facevano felici, basta ricordarsi di cosa ci piaceva da piccoli, dimostriamoci di saper essere felici, andiamo a curiosare in giro, parliamo con tutti. E se mi vedete cedere, cari tranquilli, non datemi scampo. Promesso?

 

NEL CORO

Cari Tranquilli, alcune persone per le quali lavoro confondono la Vigilia del Natale con la vigilia della fine del mondo, e non c’è verso di rassicurarli. Così sono incastrata tra mille incarichini e incarichetti extra che mi impediscono di staccare la spina anzitempo e dedicarmi, come vorrei, ad abbellire la mansardina in attesa dei parenti, confezionare pacchetti di regalini mooooolto simbolici, pensare a cosa cucinare (ricordando di chi non mangia carne, chi non mangia****** chi non digerisce il burro, chi odia le uvette, chi le bollicine…) e ritrovare il tempo per scrivere, per me e per voi, che mi tenete compagnia dalla scorsa primavera; se non ricordo male cominciammo con la cronaca del matrimonio di Kate. Ok, ok, del matrimonio di William e Kate. E’ stato un anno complicato per molti aspetti pratici, ma pieno di incontri e re incontri con persone speciali, tra queste Lina, che hanno arricchito la mia vita in modo straordinario e in modo straordinariamente semplice. Non ci vuole molto, in effetti, basta ricordarsi di tenere la porta aperta. L’ultimo di questi incontri è stato a novembre, in modo del tutto casuale sono entrata in un coro. Siete mai stati in un coro? E’ uno spicchio di umanità, dove trovate tutti i generi, compreso il vostro, ognuno con la sua personalità, pure i più silenziosi, ognuno con la sua voce ed un m&ælig;stro che, facendo una magia, cioè muovendo solo occhi e mani (bè, ogni tanto sbracciandosi e pure minacciando, ma sempre a gesti e occhiatacce) riesce, con la complicità di una pianista, a fare di tutto quel marasma una voce sola. E’ una delle cose più emozionanti che mi siano capitate (assieme al cammino di santiago, al suonare la batteria, ed altre fortune sparse nel tempo a partire da Fagiolo) che oltre al piacere fisico di partecipare al coro mi dà fiducia che tutto si possa fare e migliorare, con buona volontà, capacità di ascolto, personalità e l’aiuto di un buon m&ælig;stro e una brava pianista a condurci. Vi invito per il prossimo anno a provare a cantare; per entrare in un coro non conta essere perfetti, cercatene uno che vi somigli, quello che ha accolto me è allegro e sgangherato, si chiama l’Altrocoro ma ce ne sono tantissimi a Milano e in giro per l’Italia, si tratta solo di provarci. Forse, ma solo col permesso dei miei compagni di coro, posterò in futuro un video girato ieri notte da un giovane regista sul nostro ultimo concerto dell’anno, a casa di Tiziana prima e per strada poi. Eravamo tutti molto compresi nella parte, coi cappellini, le candeline accese, e il repertorio natalizio, ma il risultato del girato si è rivelato straordinariamente comico, a rivederlo siamo impazziti dal ridere, complici le brocche di gin tonic…