Archivio dell'autore: Cinzia

Il corpo del reato

imgres

È un dato certo che il carcere genera sofferenza e malattia. È una fabbrica di produzione e diffusione di handicap psicofisici. “Sorvegliare e redimere”, slogan applicato in tutte le varianti e devianze. Dopo l’atto pubblico del processo, con l’internamento, il corpo dell’inquisito perde visibilità, diventa un corpo ristretto, un corpo immagine-simbolo di una risposta sociale, prodotto dai media, dall’interpretazione degli agenti preposti alla prima accoglienza, identificando, per tipologia di reato, il trattamento e il suo collocamento. È carne, senza occhi, senza parola, senza memoria, senza diritto di replica. È un “corpo del reato”, corpo simbolo di tutte le aspettative sociali che chiedono il diritto alla sicurezza, consegnando il condannato alla rassicurante interdizione perpetua della sicurezza dei propri diritti.

 

Esiste quindi un’espropriazione dell’identità, un furto della sua immagine. E al corpo fisico cosa succede? La pena della reclusione è una pena corporale, qualcosa che dà dolore fisico e che produce malattia e morte. Dalla tortura dello spazio, alla tortura del tempo e della comunicazione. Al recluso è chiesto di farsi regola esso stesso, regola di se stesso, contro se stesso. Le mutilazioni proprie della perdita della libertà, provocano immobilismo, paralisi dell’azione fisica e cognitiva.

I sintomi riscontrati nella popolazione detenuta sono:

  • Circa un quarto già dai primi giorni di detenzione soffre di vertigini.
  • L’olfatto è inizialmente ottenebrato, poi annullato nel 31% dei casi.
  • Entro i primi 4 mesi un terzo soffre di peggioramento della vista.
  • Il 60% accusa entro i primi 6 mesi disturbi all’udito, per stati d’iperacutezza
  • Fin dai primi giorni l’80% lamenta perdita d’energia.
  • Il 33% patisce sensazioni di freddo, anche nei periodi estivi

 

Con Antigone si è rilevato che gli psicofarmaci sono la categoria maggiormente somministrata, seguiti da antidolorifici, antinfiammatori, anti-ipertensivi e antibiotici. Si riflette che è difficile comprendere quanto l’uso massiccio di psicofarmaci sia la risposta a un disagio psichico diffuso nel carcere oppure sia una strategia di controllo e un modo per mantenere l’ordine interno. Il detenuto deve abbandonare il suo modo d’essere, le sue cose, il suo modo di pensare, di fare, il modo di rappresentarsi a se stesso e agli altri, dovrà ridefinirsi non solo rispetto se stesso, ma anche verso i nuovi compagni. Il detenuto è spogliato del suo passato, gli è dato un presente obbligato, il futuro è la sua rieducazione o viceversa? Sono recisi i contatti con il ruolo sociale che deteneva prima; viene privato degli effetti personali, in altre parole gli sono presi gli oggetti che lo potrebbero identificare (la perquisizione è una prassi normale di controllo e di disidentificazione): viene privato di uno spazio personale, della capacità di decidere autonomamente, in quanto decidono per lui e impara a fare la “ domandina “ intesa nel suo alto valore pedagogico e trattamentale! Si realizza in questo modo la totale dipendenza del recluso nei confronti dell’Istituzione. Questa dipendenza psicologica si ripercuote nell’equilibrio della persona creando scompensi anche di grave entità:

  • Claustrofobia: l’isolamento in uno spazio chiuso e invariato provoca sensazioni di compressione spaziale, simili al panico.
  • Irritabilità permanente: manifestazioni di profondi sentimenti di rabbia, senza possibilità di scaricarla. Molti detenuti si sentono violati in ogni istante della giornata: Nel tempo questi disturbi evolveranno in patologie psicosomatiche quali: ulcere, gastriti, cefalee, infiammazioni articolari, muscolari, bruxismo, perdita dentaria.
  • Depressione: mancando un obiettivo esterno, la rabbia viene rivolta verso se stessi e vissuta come depressione, la quale se non supportata, si trasformerà in un motore d’autodistruzione con il passaggio all’atto in auto mutilazione e suicidio
  • Abbandono difensivo: è un ritiro proiettivo di sé da un ambiente ostile. Lo scopo sembra essere di desensibilizzarsi al fine di diminuire le sensazioni di sofferenza.
  • Apatia, perdita delle capacità intellettive: si ha una notevole perdita della capacità di concentrarsi. La diminuzione dell’abilità di focalizzare l’attenzione è un chiaro segno di disinteresse sia per il mondo interiore sia esterno

Questo e tanto altro dimostrano che il carcere è il luogo del deterioramento dell’uomo. Il cambiamento deve partire a restituire umanità alle strutture, edifici penitenziari, potenziando le attività lavorative, ricreative, culturali al fine di rieducare l’individuo al senso di responsabilità civile, seguendo agevolando in seguito il suo inserimento nel tessuto sociale. Il carcere non può continuare a essere l’alibi di ciò che non si può fare, non si sa fare, non si vuol fare. Non si gioca sul carcere tutta la partita della giustizia. La difesa e la sicurezza della società, non compete né al carcere né alla magistratura. Piuttosto alle istituzioni e ancor prima all’intera società.

Fonti: Antigone, DAP, AMAPI

 

La mia libertà, poesia di Cinzia Mangano

tramonto

Ciò che resta della mia libertà
è questa sagoma d’ombra alle mie spalle
alla quale rivolgo i pensieri
rievocando le nostre figure in piedi
ferme
mute
a guardare il caldo saluto
di un tramonto amico
Ciò che resta della mia libertà
è questo prendermi per mano
raggiungere ovunque l’istante del sogno
le forze del mondo
l’energia
la poesia
la bellezza
il saziarsi di stanchezza
Quel che resta della mia libertà
è questo io nato
con me
da me
con te
riverbero legato
a dilatare d’un fiato
il cemento
la roccia
la morsa
l’angoscia
Quel che resta della mia libertà
è questo giocare con una monetina scaduta
sul nero e il bianco
di un finto marmo
il breve
l’ilare
il sogno
il mago con la faccia del nonno
Quel che resta della mia libertà
è questa danza di memorie
di storie
di luoghi abitati dai nostri fiati
mentre lo spazio infinito dei nostri corpi avvinghiati
tutto lo sporco
l’orrido
il nemico
inghiotte
è svanito

Il corpo recluso

Prima di entrare nel recinto dell’attesa, ero Cinzia: Avevo un’identità definita; esistevo per realizzare il mio progetto di essere per comprendere le intenzioni e le emozioni degli altri, altri che per empatia o casuale incontro, avrebbero edificato insieme con me un comune progetto di vita. Esistevo e per coscienza del sé, ero capace di occupare lo spazio con la mia voce, con il mio corpo, con la consapevolezza d’essere materia vibrante, strumento capace di trasformarsi, incontrarsi, adattarsi, mescolarsi, essere nello spazio lo spazio intero, essere a tempo per esserne il tempo.

Avevo dei motivi validi per cui soffrire e dei rimedi semplici per curarmi. Avevo un dolore orgoglioso da esibire che mi aiutava a comprendere quello degli altri; gioia da accoppiare con chiunque incontrasse il mio sorriso. Il mio linguaggio serviva a riconoscermi per prepararmi all’ascolto; il mio linguaggio serviva alla comunità come il loro a liberare le energie e la storia culturale della parola compresa al di là delle differenze sociali, culturali, ambientali, religiose….Parola seguita per primordiale appartenenza dal mio corpo. Danza di gesti e di umori sulle espressioni del viso, danza tribale di conversazioni mute. Diaframma aperto per liberare un urlo, un dolore, una gioia, una canzone toccando l’ottava. Diaframma chiuso per quietare una nostalgia, sussurrare un segreto, tacere ad una provocazione.

Oggi nel recinto dell’attesa mi chiamo per cognome e sono al centro di un orologio biologico caotico. Le mie braccia la misura dello spazio consentito, lancette di un tempo impersonale, dove tutto inizia senza mai iniziare realmente, dove il niente non termina mai, tempo di un luogo al confine ultimo dell’umanità: Il mio linguaggio è quello dei bambini, consapevole appena di due tre frasi che servono, bastano a chiedere cose già pre-autorizzate, a rispondere a domande rumorose, telegrafiche: Uno stadio non evoluto dell’umano sentire , primitivo comunicare quanto basta a non chiedere. Così è se vi pare

Il carcere, enorme ventre di matrigna perennemente gravida, ingorda di figli mai pronta a partorirli perché anziché nutrirli, di loro si nutre.

Il carcere, contenitore e inibitore di tutti i colori e le melodie del mondo. Tamburo dallo scheletro di ferro e dalla pelle tirata a sangue che batte il tempo, controtempo, di ogni sentire.

Il carcere, padrone assoluto della nostra libertà, contagocce dei bisogni minimi, fondamentali; esserne privati significa essere attaccati profondamente nella dignità.

Il carcere, profanatore del nostro io, con l’obiettivo di portarci allo stato embrionale, strappandoci qualsiasi identificazione con il mondo esterno e con la storia di ognuno di noi.

Il carcere, unico luogo al mondo, copia esatta del nostro incoscio, maestro elementare che ha l’obbligo di renderci “nuovamente abili” attraverso l’osservazione scientifica della personalità.

Venute al mondo, nate qui, ridotte ad una condizione di debolezza, sottomissione, dipendenza. Nate qui, private di ogni privato; sventrate le nostre culle, distrutte le costruzioni, profanate le bambole e i peluche. Corti abbracci di madri e di figli che non arrivano a stringersi. Nate qui, ci riconosciamo per paura di essere rimaste uniche al mondo, che fuori è guerra e sangue e questo bunker ci salva ogni giorno. Nate qui, aggrappate l’una all’altra ci raccontiamo una realtà distorta, enfatizzata, studiata per sopravvivere a noi stesse. Vive per morire di mille morti quotidiane, vive per inerzia, vive per slogan. Nate qui, mischiate l’una sull’altra, l’una per l’altra senza differenza, come fossimo un pezzo di carne, una sola identità. Caos, questo regna sovrano.

metamoforsi kafkiane

Subisco la metamorfosi Kafkiana. Il mio corpo muta, i muscoli si prolassano sulla pelle, il mio sguardo non è mai fisso, gli occhi si muovono nervosamente seguendo frammenti di immagini e pensieri fulminei. Istantanee di vita trascorsa: Ciechi al presente, offuscati al futuro. Sono una donna disturbata dagli eccessi di rumori uguali, di gesti ripetitivi, contaminata dall’immobilismo fisico e intellettivo. Ho perso il centro di me stessa, il mio baricentro si è spostato, le mie spalle tendono a chiudersi verso lo sterno, il collo piegarsi in avanti. Il mio passo è breve, il pensiero affollato, veloce. Il dialogo incespica tra un turbinio di parole perse nella memoria. Balbetto, perdo il filo del discorso, perdo il tempo. Non dialogo ma invoco ascolto, comprensione e il mio corpo s’inginocchia a questa supplica. La metamorfosi arriva all’apice quando nessuno circola attorno a me. Quando tutto è muto e sordo, nessuno mi vede e io non ci sono.

Il colore dei sogni

notte_arcobaleno_toscana-e1376651055656

Ci sono giorni in cui, stanca, non vedo l’ora di andare a dormire, ma, per cominciare a sognare. In genere i miei sogni sono belli, mi aiutano a capire tante cose, facendomi “spazio” – se così si può dire – specialmente quando ciò che ho vissuto durante la giornata mi ha costretta, limitata. Questa è proprio una bella funzione dei sogni! Sì, è bello sognare, ma non solo di notte. Eppure tanti non ci riescono più e questo un po’ mi dispiace, perché è proprio quando non si riesce più a sognare che se ne ha bisogno. Non tanto di quelli notturni, ma quelli a occhi aperti.

La fatica di camminare, le cadute improvvise, qualche delusione, qualche battaglia persa rischiano di toglierci la capacità di nutrire i sogni. La realtà che ci appare dura, inflessibile, sembra che voglia ricacciare i sogni nel tempo dell’infanzia, dell’ingenuità, dell’inconsapevolezza. E pensare che non c’è niente di più reale dei sogni “adulti” che ci portano avanti e, sollevandoci un po’ più in alto, ci permettono di vedere meglio ogni cosa.

Anche i sogni sono le nostre ali: ti portano lontano e ti aiutano a cogliere il senso profondo delle cose, che sarà sempre più in là e più in su di tutto ciò che vedi e tocchi. Quando ti fermi a sognare, punti sulle tue capacità più vere, su quelle nascoste, vinci le paure, torni ad essere te stesso e ti accorgi che tutto è ancora possibile, che c’è sempre un’altra chance, oltre quelle che hai già visto. Quando sogni, ritrovi la forza che pensavi di aver perso e ti accorgi che è reale non solo ciò che tieni o vorresti tenere tra le mani, ma anche ciò che vivi dentro, in quel sogno che ti fa da spinta per nuovi cammini.

Credo che molte persone preferiscano non sognare, ma essere razionali, per paura? Sì, perché il sogno ti scopre a te stesso, ti dice chi sei e dove vai, ti toglie ogni maschera. Non bisognerebbe mai tradire i propri sogni, né averne paura, perché ti possono portare lontano: ciò che si riesce a sognare, traccia la via alle proprie mete, rendendole più vicine. Sono i sogni, quelli grandi che si alimentano di grandi ideali, che affondano le radici nell’intimo di ognuno di noi, non restano mai solo sogni.

Non temiamo le delusioni, forse non tutti i sogni si realizzeranno, ma in parte è un bene così, perché i sogni devono sempre rimanere una spinta, un’emozione, un’avventura che tende a superarti sempre di più. Senza sogni, si vive solo a metà, chi non riesce a sognare o si accontenta o si dispera, farà sempre fatica a modellare la propria vita.

…E credo che la vita di ognuno di noi debba essere coltivata sempre con le cure più giuste.

 

 

 

Quando il lavoro ci fa star bene

lavoro1

Chi dice che non è possibile lavorare e star bene?

Teoricamente le aziende, gli uffici e le stanze, troppo spesso, vengono vissuti come luoghi in cui domina un’arida razionalità, luoghi dove l’emotività e la vita privata non dovrebbero entrare. Così, aziende, uffici e stanze, diventano deserti affettivi, dove le emozioni si manifestano solo sotto forma di conflitti, competizioni e aggressività. Credo che sia per questo, che oggi, troppo spesso sul lavoro si sta male. Di solito, di fronte a questi temi, prevale lo scetticismo: quanti stanno bene sul lavoro? Chi non ha vissuto esperienze ruvide, esperienze che hanno ferito? E facile pensare che il problema stia nel carattere di chi ci comanda, nelle dinamiche del gruppo che ci circonda. Facile pensarsi anche soli, o pensare che siamo gli unici a vivere così: soffrire per come ci si sente costretti a lavorare. Eppure c’è un universo che si muove sottotraccia, c’è un mondo di emozioni sempre vive e presenti, sotto la crosta fredda della razionalità.

Si può quindi lavorare bene? Ci può essere un modo diverso che ci consenta di essere più soddisfatti e meno delusi? Forse non ce ne rendiamo conto, ma siamo noi stessi ad aderire alle negazioni di emozioni e affetti. Credo che ogni situazione di lavoro nasconda un mondo di affetti e di emozioni sempre in gioco, sempre presente: occorre solo svelarlo! Perché stare bene è un diritto e, stando bene, si lavora meglio. Il lavoro ha sempre fatto parte della nostra vita quotidiana e pensare che la vita personale e quella lavorativa siano cose distinte è assurdo. Il lavoro coinvolge le persone, influenza l’umore e i rapporti interpersonali, condizionando proprio la nostra esistenza. Pensiamo che cosa hanno in comune il mondo del lavoro e quello degli affetti: incomincerei proprio dalla parola “bene”. C’è il bene che si vuole alla famiglia, i beni durevoli, i beni mobili e immobili. Poi ci sono frasi come “ho paura di perderti” oppure “quell’incontro è stato un fallimento”. Insomma “fallimento, perdita” sono parole economiche che però vengono usate nella sfera delle relazioni. Le parole sono le madri delle cose, dicono l’origine e il senso di ciò che definiscono, perché sono tracce, orme, carte da decifrare per orientarsi. Sono segni, sono fili invisibili che legano le persone.

 

Mi è sempre piaciuto lavorare, non perché ne avevo di bisogno, ma perché ho sempre pensato che era l’unico modo per esprimere me stessa dando un significato alla mia vita. A distanza di anni (e di contesto) lavoro ancora…cosa penso? Che lo amo ancor di più perché mi sta dando ancora l’opportunità di mettermi alla prova, di tessere e vivere relazioni stimolanti. Soprattutto mi dà la possibilità di investire sulla mia vita, “acquistando la capacità di essere ciò che sono, qui, dove sono”. Ho scelto il mio progetto di vita: quella cosa che mi accende e che mi piace fare è quella particolare caratteristica del mio essere che, quando vive, mi porta energia e piacere, è la mia specificità che quando ho la capacità di mostrarla, mi produce il piacere di libertà. Non si tratta di missione, ma vale sempre la pena inseguire questa direzione!

Buon lavoro a tutti!

Per non dimenticare

An undated archive photograph shows Auschwitz II-Birkenau main guard house which prisoners called ...

Quest’anno, il 27 gennaio, c’è stata la ricorrenza del sessantanovesimo anniversario della liberazione di Auschwitz, “la chiusura della fabbrica della morte”.

Sessantanove anni …

Quando si parla di ricorrenze, le cifre suonano più importanti, si stampano con facilità nell’attenzione di tutti … anche di chi ha solo sfiorato con superficialità l’argomento. La cifra risuona con maggiore pienezza, e, forse proprio per questo, rischia a volte di scivolare nella retorica, nelle parole vuote e di circostanza, nella celebrazione che nasce e muore nelle ventiquattro ore. Ma ci sono pochi casi – e la Shoah è uno di questi – in cui la retorica è concessa. Come una sorta di filtro, quasi come se fosse un velo protettivo, perché i fatti crudi non ci intontiscano con la loro violenza. Credo che una certa dose di retorica debba essere indispensabile affinché il ricordo duri. Qualcuno forse si chiederà perché è importante che il ricordo duri, in un mondo che oggi più che mai, sperimenta altra morte, altri orrori, altri incontrollabili focolai di odio? Forse perché credo che non dobbiamo mai relegare un simile evento fra le categorie dell’insensato e del mostruoso, “PERCHÈ NON C’E’ NULLA CHE CI DÀ LA CERTEZZA CHE NON POSSA RIPETERSI” .

In questi ultimi anni, molti testimoni della Shoah sono stati criticati, come se il racconto del particolare, infastidisse la visione completa dell’evento, come se i ricordi individuali soffrissero di troppe contaminazioni postume, di inciampi della memoria, di suggestioni nemiche di un autentica comprensione. Può essere, rispetto a un documentario sui campi di sterminio, che il racconto del testimone prema più sull’emotività che sulla ragione di chi ascolta, e questo non fa altro che spostare il baricentro della conoscenza dall’intera catena di montaggio dell’orrore a un’unica figura scheletrica e attonita al centro del nulla. Al giorno d’oggi, e forse soprattutto ai giovani, così lontani dal passato, sempre bombardati da informazioni che convivono con la violenza, è difficile far comprendere.

Non è da molto tempo che la scuola italiana ha scoperto quanto l’insegnamento della Shoah possa rilevarsi trasversale: un occasione educativa, un evento che, al di là della sua centralità storica, si dimostra capace di aprire ai grandi temi sull’indifferenza, sulla violenza, sulla tolleranza e la convivenza tra culture diverse. Credo che lo stesso insegnamento dovrebbe essere collocato anche nel contesto sociale e politico, proprio per promuovere una maggiore integrazione reale tra storia e memoria. Tutto ciò potrebbe contribuire a dare forza e coraggio per cercare di riuscire a non far mai dimenticare ciò che è successo in quei lontani anni, e che purtroppo in misura molto ridotta capita anche oggi: ” la cattiveria e la stupida pazzia che c’è sempre dietro l’angolo”. Conoscere il passato è anche dare un contributo soprattutto per riflettere sulla fatica spesa da chi ci ha preceduto per conquistare la libertà di cui oggi noi tutti usufruiamo.

E a questo punto vorrei esprimere un piccolo pensiero personale:”ognuno di noi ha un destino scritto da qualche parte … la via che risale al passato sicuramente è dolorosa, però credo che molti si dovrebbero impegnare ugualmente nella speranza di contribuire per far sì che ciò che è accaduto non si ripeti più”.

A volte basta “NON DIMENTICARE”.

Un pensiero per il nuovo governo…

cinzia

Voglio rivolgere il mio pensiero a tutti quelli che hanno fatto perdere “certezze e speranze”. Penso alla nostra Costituzione Italiana…la più bella del mondo; in cui la responsabilità dell’Istituzione si misura anche nella capacità di saper rappresentare e garantire, uno a uno,“i diritti universali”… Penso e vorrei… Sì, vorrei che qualcuno si impegnasse a restituire piena dignità ad ogni diritto… Vorrei che ci fosse qualcuno che sia pronto a ingaggiare una vera battaglia contro la povertà… e non contro i poveri… Vorrei che qualcuno ascoltasse seriamente la sofferenza sociale di una generazione che si è smarrita, diventando prigioniera di precarietà e costretta a portare i propri talenti lontano dalla nostra Italia… Vorrei che qualcuno si impegnasse a farsi carico delle Donne umiliate dalla violenza: “una violenza mascherata d’amore”… Vorrei che qualcuno imparasse a stare accanto a chi è caduto senza trovare la forza per rialzarsi…(anche se credo che sarebbe meglio trovare modi e sostegni per evitare che questo accada)… Vorrei che qualcuno si impegnasse a pensare anche a tutti quei detenuti che oltre a vivere emarginati da una società pregiudizievole, sono costretti a vivere in condizioni disumane e degradanti, come autorevolmente ha denunciato la Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo… Vorrei che qualcuno si adoperasse per dare strumenti a chi ha perso il lavoro o non lo ha mai trovato… A chi rischia di perdere gli ultimi risparmi di una cassa integrazione… E… ai cosiddetti esodati, che credo che nessuno abbia mai dimenticato… Vorrei che lo stesso pensiero andasse ai tanti imprenditori che costituiscono una risorsa essenziale per l’economia Italiana e che oggi sono schiacciati e costretti persino a suicidarsi, per il peso della crisi… Vorrei che qualcuno si impegnasse anche a non dimenticare le vittime dei terremoti e degli effetti di scarsa cura delle nostre terre… Vorrei che qualcuno sia seriamente interessato a dare più fiducia a tutti quei pensionati che hanno lavorato tutta una vita e che ora non riescono ad andare avanti… Vorrei che qualcuno imparasse realmente a capire il mondo, guardandolo da vicino e con una ricchezza interiore… Oggi inizia un viaggio… “UN NUOVO GOVERNO”… Vorrei tanto che qualcuno fosse pronto a riportare “nella nostra Italia” un approdo certo per i diritti di ogni persona: “un luogo di “LIBERTA’, FRATERNITA’ E PACE”… Vorrei che questo viaggio possa essere un vero cambiamento per tutti gli Italiani, ma soprattutto per i figli che verranno…

L’importanza di dare voce

cinzia

Alzi la mano chi non si è mai rinchiuso nella propria stanza, ascoltando e canticchiando con la testa affondata nel cuscino, una canzone… magari un brano infelice quanto noi. E questo, per non sentirsi soli.

La musica può essere una chiave di lettura, perché, se si pensa bene, una canzone può creare un insieme di eventi che hanno la capacità di suggestionare, gridando messaggi e lasciando tracce indelebili, rimuovendo così quella crosta di manifestata ignoranza che avvolge i preconcetti, abbattendo così i confini.

Questa la ragione per cui l’insegnante Liliana Olivieri, ha pensato di avviare un corso canto corale all’interno del Carcere di San Vittore … perché la musica deve far riflettere sulle difficoltà e le gioie della vita, non solo per chi le vive, ma anche per chi le interpreta.

Cantare, infatti, per noi del gruppo, può essere un modo per evadere dalla triste quotidianità, ma allo stesso tempo può aiutare a togliere una maschera … “una maschera che sa diventare nuda”, perché ci rende libere da noi stesse.

È attraverso un suono, una voce, che si può riscoprire il valore di ognuno di noi, e per lo stesso motivo, grazie a Liliana, sempre all’interno della struttura femminile, è stata promossa l’iniziativa del gruppo condivisione donna, un’altra attività culturale che ha lo scopo di dare voce alle molteplici difficoltà in particolar modo del mondo delle donne: donne che si arrendono di fronte a certe superficiali evidenze, donne vittime di violenze, donne che smettono di credere. Attraverso questi due progetti vogliamo cercare di dare vita alle storie perché sono vite che riguardano tutti … indipendentemente che siano privati o no della libertà.

Dietro una radio c’è sempre un ascoltatore: spesso si chiederà cosa c’è dietro una voce … io credo che ci sia tanta passione, tanto impegno e soprattutto tanta speranza, una speranza per contribuire a rendere una realtà, più umana, più limpida e più nostra … “insieme”.

Cinzia