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Natale con tre r: ridurre, riusare, riciclare

Il Censis lo ha battezzato l’e-consumatore competente. E’ l’italiano che si adatta in tempi di Grande Crisi, rivede le priorità degli acquisti e dei bisogni, e innanzitutto sfrutta tutte le potenzialità della Rete per risparmiare e per Non Sprecare. Un esempio? Quasi il 15 per cento delle famiglie italiane ha deciso di cogliere l’opportunità di comprare beni (non solo alimentari) e servizi (compresi quelli nuovi come il car sharing) attraverso l’iscrizione a gruppi di acquisto online. E si tratta di consumatori che mettono al primo posto, nelle valutazioni necessarie prima di decidere un acquisto, la chiarezza dell’informazione sulla provenienza della merce, un altro elemento favorito dal boom degli scambi sul web.

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Con questo profilo l’e-consumatore competente si presenta all’appuntamento con un Natale che si preannuncia sobrioparsimonioso e con meno risorse sul tavolo. Secondo i calcoli di Confesercenti-Swg gli acquisti complessivi degli italiani nel mese di dicembre scenderanno da 38 a 36 miliardi di euro, mentre la Confcommercio ha già calcolato la prevista diminuzione degli acquisti natalizi nel 2012: meno 13 per cento. E’ chiaro che su questi dati incidono la Grande Crisi con i suoi effetti a catena, e in primo luogo la tosatura fiscale, avvenuta proprio a dicembre, con il pagamento dell’Imu. Quanto alle nuove tendenze, il Natale 2012 sarà ricordato per le tre R: ridurre, riusare, riciclare.

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Della riduzione abbiamo già parlato, ed è in linea con i nuovi stili di vita che si stanno facendo strada per affrontare la tempesta della recessione. Riusare, invece, evoca il boom del baratto, quello scambio che aiuta a combattere gli sprechi e ridà vita alle cose. Milioni di italiani, nei giorni scorsi, hanno partecipato al mercato del baratto organizzato dalla Coldiretti e sul web spopolano i siti dedicati proprio allo scambio, senza contropartite monetarie. Tutto è molto semplice: si clicca la propria città, il proprio quartiere e la strada, e di certo c’è qualcuno che, a due passi, è pronto a barattare qualcosa. La seconda tendenza è il riciclo, inteso come una nuova vita ai regali, senza sensi di colpa. In molti stati americani si celebra il National regifting day, che in Colorado è perfino una festa ufficiale dello Stato, nel terzo giovedì di dicembre, la giornata più utilizzata per i party natalizi. La percezione del riciclo si è completamente capovolta negli ultimi tempi: fino a qualche anno fa solo il 6 per cento degli americani ammetteva di riciclare i regali, oggi l’83 cento non si sente offeso se riceve un regalo di seconda mano. Il cambiamento degli stili di vita passa anche per gesti semplici, ieri considerati poco opportuni, oggi necessari.

Da Parigi, cicche e prostitute

Oltre alla perdita della tripla A, il sonno dei parigini, a giudicare dai giornali, è turbato dalle prostitute e dalle cicche (mégot) di sigarette. Contro le prostitute è stata proposta una legge, probabilmente destinata all’oblio, per punire i clienti (“questa qui la conosco purtroppo”). Ma i mozziconi stanno creando un vero problema. Cosa è successo? Con il divieto di fumare nei locali, che i francesi hanno applicato con napoleonica efficienza, tutti vanno a fumare sul marciapiede, dove si accumulano gruppetti di camerieri, baristi, sartine, commesse, shampiste e via dicendo che escono a farsi un tiro e a guardare l’Iphone. Tanto che tutti i bar, per non perdere clienti, oltre ai noti tavolini hanno messo sul marciapiede dei tabouret rotondi per chi vuole fumare e appoggiare il gomito. E’ una buona occasione per rompere la noia e prendersi una pausa. Ma le cicche crescono e pare che ci vogliano due anni per pulire i residui chimici. Le cifre sono come sempre strabilianti e il sindaco Delanoë corre ai ripari promettendo di installare 40.000 portaceneri, ma non è ancora chiaro se saranno in acciaio, che di questi tempi scomparirebbero subito, o in qualche plastica (non) nociva. La storia mi ha procurato un flash di memoria impressionante: nel 1956 sono passato a Parigi in autostop e con il mio amico Carlo vivevamo in un Auberge de la Jeunesse a un tiro di schioppo da Pigalle. La sera il rientro era una sofferenza perché dovevi passare tra una doppia fila di belle ragazze che fumavano lungo i marciapiedi e ti tormentavano «Tu viens mon chou?» «Tu me donne une sèche?» e simili, cui noi poveri in canna non potevamo che rispondere mormorando a malincuore, «Je n’ai pas il sous» che era esattamente la verità. Ieri ripasso dalla stessa strada, più o meno, di quasi sessant’anni fa e di colpo mi trovo in un corridoio di belle ragazze che fumano sui marciapiedi. Un momento di disorientamento e di impressionante deja vu e poi capisco che non mi stanno offrendo niente, ma sono semplicemente clienti dei bar della strada a fumarsi una sigaretta. Peccato, questa volta il sous ce l’avrei anche, ma mancano le proposte.

Guido Martinotti

I jeans fatti con l’immondizia firmati Levi’s

Questa non è una storia di eco-fashion. Non è lo stilista emergente che inventa la linea verde, sostenibile, con materiale riciclato. Questa volta è la Levi’s, numero uno al mondo nel settore dei jeans, marco planetario con un fatturato di 4,1 miliardi di dollari, che lancia una nuova collezione, “Levi Wast Less”, e la lancia con ils eguente slogan: “Questi jeans sono fatti con la spazzatura“. Grazie a straordinari risultati nel settore della ricerca, i dirigenti della Levi’s sono riusciti a tirare fuori una plastica riciclata che integra il cotone e rende il pantalone ancora più resistente e conveniente. Il punto di partenza sono le note bottigliette di plastica, che in America sono al centro di una forte campagna di opinione che ne chiede l’eliminazione: da questi contenitori di bibite gassate e acqua minerale, i tecnici della Levi’s hanno tirato fuori una plastica guidicata “molto interessante” per il suo uso nell’abbigliamento. In pratica, ogni otto bottiglie vecchie viene fuori il 20 per cento del tessuto in plastica di un jeans.

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Idee per la testa

Niente risulta datato se si accorda allo stile e all’umore. Così accade al cerchietto per capelli, retaggio di un bon ton zuccherino che ci si può concedere di tanto in tanto. Con spiritosaggine. Una chioma ben lisciata all’indietro, incorniciata da un modello di linea semplice, rende più intrigante la tenuta compassata del tubino. Ma non limitatevi alle occasioni più levigate e formali. Osate anche di giorno, divertendovi.

Zero History di William Gibson

Questo libro (Fanucci 2012) non potrà essere capito a fondo da chi non se la cava a distinguere Shangai Tang da Pearl [River] Market o Eugenio Vazzano e riesce a comperare la roba più chic pagando il meno possibile in tutti e tre i posti. Ma comunque leggetelo lo stesso perché non solo vi divertirete, ma imparerete un sacco di cose utili, soprattutto in tempo di crisi quando siamo tornati ai tempi della guerra e si fanno ottime minestre (pancotto) e buoni dolci (charlotte) con il pane secco, senza contare il pan grattato che può sostituire vari condimenti in molte ricette.

Con il titolo allusivo di Zero History, William Gibson  il geniale cantore del mondo delle piattaforme digitali  e inventore del termine cyberpunk (Burning Chrome (1982)  Neuromancer (1984), (Count Zero (1986), Mona Lisa Overdrive (1988) ) prosegue la Blue Ant trilogy  iniziata con Pattern recognition  (2003, in italiano L’accademia dei sogni, 2005 vedi la mia recensione sul  Domenicale in quell’anno) continuata con  Spook Country (2007) che combina il mondo creativo e maniacale per i dettagli, della moda, della pubblicità,dei designers e delle bands musicali, con il mondo maniacale delle grandi zaibatzu mondiali, con le loro limo blindate, gli eserciti privati della security e il mondo maniacale dei servizi segreti, dello spionaggio elettronico e del commercio delle armi, tutti legati dalle prospettive maniacali di fare quantità maniacali di denaro. La storia gira attorno alla ricerca (che si svolge come opportunamente deve avvenire saltabeccando da Sidney, a Parigi a Firenze, a Londra  e in ogni dove, purché in questo dove ci si trovi sempre o in ristoranti chic come Les Editeurs di Parigi o il misterioso Hotel privè di Londra chiamato Cabinet) di una misteriosa quanto raffinata disegnatrice di moda che produce capi introvabili di squisita fattura, in piccoli laboratori perduti nello sprawl. Ben presto la storia si complica perché Bigend, il boss fisicamente e politicamente sovrumano, della Blue Ant,  agenzia tuttofare che si occupa dell’affare, inciampa in un traffico di armi mondiale, mentre sta cercando a sua volta di ottenere una commessa militare per uniformi da squadre speciali firmate da famosi designers. Esiste anche una moda maniacale dei corpi speciali che contribuisce alla mitopoiesi che li riguarda. Se credete che la griffe sia troppo frivola per le uniformi militari vi sbagliate di grosso, non avete mai visto un generale degli Ussari, o nella versione UPIM dei generali messicani un Gheddafi qualsiasi. Posso garantire che sono tanti soldi. Un mio collega americano (non sto a mettere nomi) ha sposato la figlia di un ricco signore ebreo trasferitosi da New York a Los Angeles. A vederlo non gli davi quattro soldi, una sera ci ha invitato a mangiare da Chasen’s e senza riserve con grande scandalo della figlia mi chiama Dago (come Whop, Guido etc , Dago è per un vecchio ebreo newyorkese il modo giusto di chiamare un italiano, esattamente come loro li chiamavano Hymies o Bagel Dog e via slurrando). Quel signore lì ha inventato le Eisenhower Jackets, quei giubbini impermeabili con lo zip e l’elastico alla cintura che portavano i soldati americani durante la II Guerra mondiale e che Ike portava un po’ per snobbismo un po’ per sincero spirito egualitario. Fatevi un po’ voi i conti quanti soldini ha portato a casa il signore che aveva il brevetto di quel giubbino e difatti si è trasferito a Los Angeles, ha comperato la casa di George Raft su nel Canyon di Hollywood e ha continuato a fare affari in Giappone (non facile) fino ai suoi ultimi giorni. Gibson non esagera.

 

 

Il racconto è seguito per così dire in soggettivo da due personaggi. Uno, in realtà il vero narratore, è un maniaco depressivo, in fase di ricostruzione psichica, seguita a distanza da un costoso e misterioso laboratorio a Basilea, ingaggiato dal maniacale Bigend per le sue qualità eccezionalmente maniacali di cogliere i dettagli (un carryover da Pattern Recognition), L’altra storia portante è quella, immancabile, di un amore romantico e disperato tra la narrante e il solito Superman pensionato delle Special Op della CIA, un po’ ingrigito ma ancora supercool e superfigo, ma non aggiungo altro per non svelare troppo di una trama che riserva una sorpresa a ogni capitolo, se non a ogni pagina. Leggetelo, ma se non siete anche voi dei nerds maniacali capaci di sapere su che macchina girava il Pentium, oppure dei maniacali gustatori di vestiario capaci di distinguere, dalle cuciture, il Gronchi Rosa della partita farlocca di jeans di seta di Takashimaya, dalla sua imitazione fatta a Shangai o a Taiwan, e venduta a Shinjuku, non vi divertirete fino in fondo, ma potrete imparare un sacco di cose interessanti e di irrelevant trivia, aggirandovi con il geniale Gibson, vero radar per i trends della contemporaneità, nel sottomondo dei negozietti tra Noho, Soho (quello originale, non quello South of Houston, attenti alla pronuncia touristspotter) e  le bancarelle di Akihabara, dove una popolazione maniacale ricicla il floatsam e il jetsam materiale e umano di una maniacale economia mondiale del consumo, mescolando lowlife e high tech: il brand (è proprio il caso di dirlo) di questo autore. Leggetelo, ma prima date una occhiata ai cataloghi online e a eBay.

Un cardigan è per sempre

La compagnia fedele di un cardigan non si baratta con nient’altro. Sempre a modo, dalla comodità imbattibile, discreto eppure mai troppo anonimo, è la quintessenza della versatilità. Se poi è in cachemire, tanto meglio. Al calore e alla morbidezza non si rinuncia. Perché hanno il magico potere di renderci più gentili.

Sì alla legge sui cassonetti per i mozziconi

Sul fino di lana della chiusura ormai prossima della legislatura, la commissione Ambiente della Camera potrebbe fare un bel regalo agli italiani approvando lanuova legge per lo smaltimento di mozziconi di sigarette e gomme da masticare. Parliamo di un fenomeno devastante, che produce un doppio danno: per l’ambiente e per le casse delle amministrazioni locali. Cicche e chewing gum sono due potentissimi killer del mare e del suoloLEGGI ANCHE: Una legge contro i mozziconi: finalmente.

Un terzo dei rifiuti nel Mediterraneo, per esempio, è formato da mozziconi di sigarette e dalle sostanze che contengono. Nelle strade e sui marciapiedi, invece, vengono gettate 72 miliardi di cicche l’anno, pari a 200 milioni al giorno. Con l’aggiunta di 3mila e seicento tonnellate di cenere che contiene nicotina, benzene e gas tossici. Quanto alle gomme da masticare, se ne contano 23mila tonnellate e ciascuna chewing gum ha un ciclo di decomposizione non inferiore ai cinque anni. Per quanto riguarda le spese di manutenzione, soltanto il comune di Roma ogni anno deve pagare circa 5 milioni di euro per pulire strade e marciapiedi dai mozziconi e dalle gomme da masticare. LEGGI ANCHE: Vogliamo città pulite, ma facciamo qualcosa per riuscirci? 

La legge, che diventerebbe operativa già con il voto della commissione, porta la firma di 36 parlamentari di entrambi gli schieramenti e prevede un radicale cambio di paradigma per bloccare il fenomeno. In pratica, mozziconi e gomme da masticare diventerebbero rifiuti speciali e come tali dovranno essere smaltiti in appositi cassonetti. Una buona idea da completare, in sede di applicazione, con un corollario: affidare il disegno dei cassonetti attraverso un concorso a giovani architetti ed esperti di design urbano. Avremo così città più belle e più pulite.

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E allora, io quasi quasi prendo il treno…

Mai come sui treni si vede che la concorrenza tra diversi competitors faccia bene alle tasche dei cittadini e dei viaggiatori. Tra Frecciarossa e Italo,  le due compagnie che si sfidano sui binari a colpi di occasioni e di cronometro.

Sulle tratte dell’alta velocità tra Milano e Roma, c’è una gara a contendersi i passeggeri senza esclusione di colpi. La prima conseguenza è la sconfitta dell’aereo su questa tratta, ormai considerato fuori  mercato. La gara di velocità  ha portato i treni a volare sul filo delle 2 ore e 45 e già si annunciano treni-siluro che uniranno le due capitali italiane in due ore e mezzo o addirittura 2 ore e 20. E i prezzi? Quelli di listino sono ancora cari ma se si comprano con anticipo si può viaggiare da Milano a Napoli con 40 euro. Senza contare che per i soci Touring sono possibili sconti  su Italo di 20 euro sulle tariffe Italoinsieme, Base ed Economy. Info 840 888802).  Il problema è che cosa succede alle altre linee, agli altri treni. Ma questa è tutta un’altra storia, purtroppo.

Bijoux del buonumore

L’ossessione da carato e l’esibizione del brillocco per manifestare la propria appartenenza sono acqua passata. Quello che chiamiamo gioiello oggi è sintomo di grande libertà. Di esprimere il nostro essere creative, di suggerire stile con il calcolo raffinato dei dettagli. Non conta la preziosità, ma la magia che infonde al nostro look. E il sorriso che ci mette sulle labbra.

Boom di risparmi: i farmaci generici

La scossa a favore dei farmaci generici, tanto contrastata dalla lobby del farmaco, sta iniziando a dare i suoi risultati. E sono numeri importanti. In Campania, per esempio, soltanto nei primi quattro mesi del 2012 il costo dei farmaci, a carico del Servizio sanitario nazionale, è crollato di quasi 27 milioni di euro. Il motivo? I medici iniziano a prescrivere medicine generiche,meno costose di quelle griffate.

Una conferma di questo meccanismo virtuoso che si è messo in moto arriva dal fatto che mentre i rimborsi dei medicinali sono diminuiti, il numero delle prescrizioni (19 milioni in quattro mesi) è rimasto fermo. Il risparmio sullo spreco dei farmaci si traduce anche in una boccata d’ossigeno per le casse regionali della Campania che sono schiacciate da un enorme debito maturato proprio nel settore sanitario. Se continua così, in Campania ci saranno meno spese per rimborsare farmaci inutili e più soldi da destinare agli investimenti. Non sprecare ha sempre un doppio risvolto: risparmio e nuova crescita economica.

Il tronchetto della felicità

Si parla di stivaletto alla caviglia, in gergo modaiolo ankle boot, che ci aiuta a salvare capre e cavoli. Non fascia come uno stivale, non scopre come una décolletée. È sempre sul pezzo, di giorno e di sera, specie sfoggiato nell’impeccabile nero. Tante virtù meritano la più alta considerazione, tenetelo a mente.

Vaccini tra sprechi e sequestri. Qualcuno bara?

Il mercato dei vaccini in Italia è sempre più opaco. Mentre si prevedono dai 4 ai 6 milioni di vittime dell’influenza in arrivo, con conseguenze fino al marzo del 2013, il ministero della Salute ha deciso di sospendere la vendita di ben quattro vaccini dell’azienda Novartis. C’è bisogno di ulteriori verifiche sulla sicurezza di questi medicinali, secondo l’Agenzia nazionale del farmaco che ha spinto il ministro a intervenire sul mercato. Il vaccino antinfluenzale è da tempo al centro di polemiche: serve sempre? E quando va prescritto?
Come per le pillole (ne sprechiamo 1 miliardo l’anno), anche per questo tipo di farmaci, il richio infatti è di fornirle a persone che non ne hanno bisogno.

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Con i piedi per terra

Discrezione e sobrietà sono la nuova panacea. Contro la crisi e contro l’arroganza che ci impoverisce più di ogni manovra finanziaria. Scendiamo dai tacchi, dunque, e per una volta godiamoci un paio di mocassini. Emblema della noiosa pantofolaia? Nossignore. Distintivo della signora spontanea e rilassata, che non ricorre ad effetti speciali per incantare il mondo. Con il cuore leggero e i piedi ancorati alla terra.

Il libro che mi ha cambiato la vita? Il gattopardo

La prima volta non l’ho letto, l’ho visto. Durante le vacanze estive a Teglio, in Valtellina, nella programmazione abbastanza consueta
di versioni b-movie, da Robin Hood al Corsaro Nero, era entrato il capolavoro che Luchino Visconti aveva tratto dal capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Mi ricordo poco di quella sera, neanche quale fosse piu` o meno l’anno. Solo che il parroco, il titolare della sala, al mattino negli annunci di fine messa si era raccomandato di arrivare prima del solito perche´ questa volta il film era davvero lungo. Pochi giorni prima di lavorare a queste pagine ho chiesto a mia sorella che cosa le fosse rimasto in mente. Senza esitazione mi ha detto: « Il ballo! » A conferma che noi maschi siamo sempre un po’ limitati, confesso che a me per anni invece giravano in testa solo le immagini degli scontri a Palermo, le sequenze iniziali tra garibaldini e borbonici. Sinche´ non ho rivisto il film – quando hanno inventato i dvd e` stato il primo che ho comprato – pensavo addirittura che durassero moltissimo. E, in ogni caso, hanno contribuito a farmi sentire garibaldino sin dalla preadolescenza.
Il libro l’ho scoperto dopo. Ma so bene quando: quinta ginnasio, al Liceo D’Oria di Genova avevo una di quelle insegnanti che rendono onore alla scuola. Enza Forgione, non so dove sia, spero che per un caso legga queste pagine: e` grazie anche a lei se mi sono reso conto che dei libri ci si innamora. Per aiutarci a capire che I promessi sposi non era una palla colossale (come accadeva al 90 per cento dei nostri c&&&&&œlig;lig;lig;lig;lig;tanei) e che bisognava inquadrarlo, ci aveva fatto leggere I Vicere´ di Federico De Roberto (l’ho offerto in opzione a Romano Montroni per questo libro nel caso qualcuno avesse gia` scelto Il Gattopardo). E poi ci aveva fatto discutere, aiutandoci a capire gli angoli oscuri (del romanzo e della storia italiana).
Insomma, dopo De Roberto, arriva Tomasi di Lampedusa e io, pagina dopo pagina, sprofondo tra i dubbi e le certezze del principe, mi impossesso del suo fisico poderoso, sogno il profumo di Angelica, immagino il timballo di maccheroni, sento l’eco dell’orchestra. Da allora ho una predilezione per i palazzi sbrecciati che cadendo qua e la` a pezzi mantengono il loro fascino grandioso.
L’unico aspetto che solo dopo riletture successive mi e` stato piu` chiaro e` quello erotico: le preghiere della principessa Maria Stella nel dopo, le fughe di Tancredi e Angelica nel palazzo di Donnafugata, le ansie di Concetta. A quattordici anni sognavo di piu` i garibaldini. E persino il conte Cavriaghi, l’amico sfigato che aveva diviso l’avventura garibaldina con Tancredi, mi sembrava un er&&&&&œlig;lig;lig;lig;lig;.
Tre cose che ho imparato leggendo Il Gattopardo/1

Diffidare sempre della ricchezza esibita (e del nuovo che avanza). Calogero Sedara che sale le scale con il frac tagliato su misura da un artigiano di Donnafugata e` la metafora potente di tante cravatte sbagliate d’oggigiorno. Dell’arroganza del denaro accumulato in fretta (e con modalita` oscure).
Mai rinunciare alla buona educazione.
Senza le maniere giuste il principe di Salina non riuscirebbe a trattare e far ragionare nessuno, da Calogero Sedara a padre Pirrone, da Ciccio Tumeo al retorico colonnello Pallavicino (bastano due parole sue per farti diventare garibaldino a vita).
Si combatte sempre per un re. Ma quale re?
Quando Tancredi saluta lo zio prima di unirsi alla rivoluzione i due parlano rapidamente. Conta di piu` il non detto. Ma da quel « quale re » che il nipote oppone allo zio in modo sfrontato discende la famosa teoria del tutto cambi perche´ tutto resti uguale. Certo, aiuta a capire i 150 dell’Italia, ma anche quanti guasti ci ha procurato.
Oltre vent’anni fa sono stato in Sicilia per la prima volta: durante una vacanza nella settimana di Pasqua giravamo con un gruppo di amici, tutti insieme in un pulmino. Quello che ci aveva invitato e organizzato viveva a Palermo, ma era originario di un p&&&ælig;lig;lig;sino dell’entroterra. E ci teneva molto a portarci li`. La sua famiglia era una di quelle in vista. Lo scoprimmo quando da un angolo della piazza deserta, dove eravamo arrivati con un po’ di ritardo sulla tabella di marcia, spunto` una delegazione impettita di varie autorita` locali, autoconvocatesi per rendere onore agli ospiti.
Alla loro vista mi scappo`: « Manca solo che cantino Noi siamo zingarelle». Non ho mai capito se l’ospite gradi` o meno, da vero siciliano
non lo lascio` intuire. Ma sembrava davvero l’arrivo della famiglia del principe a Donnafugata. Tornato a casa ho riletto Il Gattopardo.
Tre cose che ho imparato leggendo Il Gattopardo/2
Un siciliano e un piemontese vanno d’accordo.
Alla faccia della devoluzione, del federalismo: due persone di bei modi e buona intelligenza, che arrivano dagli estremi della Penisola,
si trovano subito. Chiamatelo teorema di Chevalley, dal nome del nobile piemontese che tira un sospiro di sollievo quando vede un aristocratico lombardo molto a suo agio in un palazzo aristocratico siciliano. Impagabile l’immagine dello stesso Chevalley e di Francesco Paolo, il terzogenito del principe, che portano insieme il bagaglio per eccesso di cortesia reciproca.
La grande letteratura e` sempre inattuale.
Tutta la vicenda e` immersa nel tempo in cui e` narrata, ma al contempo ne fugge. Scivola nell’anima dei personaggi e nei palazzi e nei giardini dove questi vivono. E illumina gli angoli oscuri degli uni e degli altri. Ci racconta uomini e donne assoluti, caratteri eterni. (Tanto e` vero che un genio come Luchino Visconti ha trovato un don Fabrizio perfetto in Burt Lancaster.)
Alle ragazze non piace Aleardo Aleardi.
Povero Cavriaghi che vorrebbe fare breccia nel cuore di Concetta con i canti del p&&&&&œlig;lig;lig;lig;lig;ta romantico (se Tomasi non l’avesse citato ce ne ricorderemmo?) Come pensa di farcela con pensieri cosi` sdolcinati? Neanche nell’Ottocento le ragazze erano cosi`. E poi lei, come dice il padre don Fabrizio, pensava al cugino Tancredi e quel nobile lombardo e` davvero come bere acqua dopo aver gustato il Marsala.
Lo scorso agosto solo in macchina, mentre guidavo in autostrada e riuscivo a prendere bene Radiotre per un lungo tratto (gli ascoltatori hard sanno che ha del miracoloso) ho sentito una lettura del capolavoro di Tomasi di Lampedusa. Non ricordo chi fosse l’attore, ma era molto bravo nel rendere conto della fragilita` del principe: erano, infatti, le ultime pagine, non le piu` famose o le piu` citate, quando tornando da un viaggio a Napoli don Fabrizio si sente poco bene e viene portato all’albergo Trinacria. Seguiva il finale, con la visita di Angelica e del senatore Tassoni a Concetta (e
sorelle) a Villa Salina. Mentre lo ascoltavo, mi rendevo conto di ricordarlo a memoria. Tanto che alla fine mi sono commosso e ho accostato in un’area di parcheggio per godermi un istante infinito di Gattopardo dentro di me.

pubblicato per gentile concessione di Longanesi, tratto da I libri ti cambiano la vita. Cento scrittori raccontano cento capolavori, a cura di Romano Montroni.
 

Il libro che mi ha cambiato la vita? Manuale di orticoltura

Il libro che mi ha cambiato la vita non me l’ha cambiata, la vita. Non e` andata come sarebbe potuta andare. Sliding doors, deviazioni, capricci del destino.
A sedici o diciassette anni vivevo in Inghilterra, da sola, senza la famiglia ci&&&&&œlig;lig;lig;lig;lig;`, in una scuola severa. Molte le fughe. Durante un viaggetto solitario per il Galles in autostop (parola che e` una dichiarazione
anagrafica: come dire Sip o frigidaire) finii non so come in una fattoria interamente alimentata da energie alternative, l’acqua, il vento, il sole. C’era anche una coppia di lesbiche che avevano un bambino. A paragone con l’Italia arretrata e bigotta di quegli anni, o forse non soltanto di quegli anni, sembrava di essere capitati sulla Luna. Pioveva tantissimo. Pioveva sempre.
Pioveva come non ha mai piovuto nella storia del pianeta Terra. Rimasi li` qualche giorno. Quando non sgranavo gli occhi per la bizzarria del luogo e dei suoi abitanti, leggevo. In quegli anni portavo
giacche enormi con enormi tasche, sempre le stesse, bianca a righine d’estate e blu di panno ruvidissimo d’inverno, in una tasca tenevo sempre un libro, nell’altra una pipa. Per darmi un tono, suppongo. Darei non so cosa per entrare (brevemente) nella mia testa di allora. Nella fattoria della pioggia, avevo finito la provvista e leggevo quello che trovavo li`. Di uno, il libro che mi ha cambiato la vita o anzi non me l’ha cambiata, ricordo tutto tranne titolo, autore, editore. Peccato non averlo rubato, come (ehm) parecchi altri prima e dopo.
Era un manuale di orticoltura. Bellissimo. Con illustrazioni meravigliose, come solo gli inglesi sanno, e istruzioni dettagliatissime su concimazione, irrigazione, attrezzi, infestanti, prose (che sarebbero le aiuole), trapianti, drenaggi, pacciamatura, sarchiatura, fertilizzanti, compost, semina a spaglio o a postarella, perenni e annuali, talee, ibridi, raccolta, rotazioni: tutto. Fascino assoluto.
Dopo un paio di giorni lo sapevo a memoria e smaniavo dalla voglia di mettere in pratica, di mettere le mani nella terra. Decisi irrevocabilmente che avrei studiato agraria per salvare il mondo dal la fame. Forse mi accesi la pipa, per celebrare la solennita` del momento. E infatti. Accidenti, quel libro ce l’aveva messa tutta, ma la vita
e` andata da tutt’altra parte. Non uno ma centinaia o forse migliaia i libri che l’hanno cambiata, Eliot e Bulgakov, Diderot e Capote, Gombrowicz e Flaiano, Pus?kin e Achmatova, Shakespeare ma anche le tonnellate di romanzi mediocri, di saggi mosci, di emerite porcherie maneggiate in tanti anni: i libri, tutti, sono stati il mio lavoro, dunque la mia vita.
Adesso che la vita e` nuovamente cambiata, quando prendo zappetta e annaffiatoio e vado nel mio orto, la` dove salvo non piu` il mondo ma una sua minuscola porzione, e mi interrogo sul rapanello,
che e` una brassicacea e dunque andrebbe messo dove lo scorso anno c’erano i pomodori, e su cosa fare contro la cocciniglia, e su quale varieta` di carciofo tentare, e qualsiasi altra cosa scompare a fronte della concretezza e dei suoi frutti, il fantasma del libro perduto mi accompagna. Ha vinto lui. Per festeggiare mi siederei a guardare le colline accendendo la pipa, se la fumassi ancora.
 

pubblicato per gentile concessione di Longanesi, tratto da I libri ti cambiano la vita. Cento scrittori raccontano cento capolavori, a cura di Romano Montroni.
 

Cinema: Il rosso e il blu di Giuseppe Piccioni

Vita privata e vita professionale di una preside alla ricerca della perfezione, di un supplente di italiano pieno di buone intenzioni e di un disilluso professore di storia dell’arte si intrecciano a quelle degli studenti dentro – ma anche fuori – un liceo romano in un incontro/scontro generazionale garbato e piacevole tra esperienze, successi, amarezze, sconfitte, assenze e presenze.
E poi in una stagione al cinema iniziata nel segno della cupezza e della disperazione (È stato il figlio di Ciprì, L’intervallo di Di Costanzo, Reality di Garrone e chi scrive non ha ancora visto Pietà di Kim Ki-duk), almeno la dolcezza del sorriso che chiude Il rosso e il blu invita a sperare nella speranza.
Promossi Margherita Buy e Riccardo Scamarcio, ma il voto più alto va a Roberto Herlitzka.
 

Non sprecare: un antidoto all’indifferenza

La lotta allo spreco quotidiano e automatico non può però essere delegata, con un cinismo pari alla rassegnazione, a un manipolo di uomini e donne coraggiosi, mentre noi alziamo le mani e ci arrendiamo. Per Non sprecare abbiamo bisogno di riscoprire il piacere di cose semplici, come la leggerezza della sobrietà, per esempio, con la quale noi italiani in un recente passato abbiamo cavalcato l’onda lunga del boom economico, della crescita e dell’approdo al regno dei p&ælig;si ricchi. Oppure come l’arte della manutenzione, che significa innanzitutto riconoscere il valore delle cose, prima di eliminarle con l’alibi dell’usura del tempo che copre, attraverso una finta necessità, l’ingiustificata rincorsa all’inutile, al superfluo. Non sprecare è un antidoto, genuino e salutare, all’indifferenza. E chi non spreca ha una possibilità in più di cogliere l’occasione, partendo da piccoli gesti, di pensare in grande a un’umanità meno avvilente per le contraddizioni e gli squilibri che noi alimentiamo con il nostro stile di vita. Non sprecare può significare perfino la scoperta di una bussola per uscire sul serio dalla Grande Crisi, derubricandola dalle leggi della statistica e dell’economia e afferrandola come un’autentica opportunità di cambiamento. Non sprecare è un dittico che se, per un miracolo della ragionevolezza, riuscissimo a sfilare dalla penombra delle buone azioni di minoranze attive, potrebbe diventare presto, per tutti, una nuova scelta di libertà, dalla schiavitù del possesso esagerato e inutile, e di responsabilità di fronte a una gigantesca umanità di ultimi, abbandonati al loro destino, che non saranno mai primi su questa Terra. In fondo, basta veramente poco per non gettare un pezzo di pane in un cestino, anche se talvolta le decisioni più a portata di mano sono quelle che prendiamo meno in considerazione. Basta poco, ma può significare tanto.

Nonno filosofo

Ho la sensazione che il nonno abbia una cura, un’attenzione e una curiosità per il nipote che ha il carattere della «leggerezza», in senso positivo. Hai più passato alle spalle di quando eri genitore e, anche se i nuovi nonni hanno o possono avere agende zeppe di impegni, la tua corsa nella vita ha un ritmo diverso e puoi avvertire la bellezza di tempi vuoti da riempire con legami e affetti di cura. Così, libero o più libero da oneri e impegni, ti può accadere di essere più aperto e sensibile alla fioritura di un cucciolo. Soprattutto, hai più possibilità di scoprire i processi in corso di apprendimento e di sviluppo per soglie di capacità dei nipoti e ti viene più voglia di giocare anche tu, in modi che in realtà trasformano un po’ anche te.
Non è semplicemente il fatto che non hai la responsabilità diretta dell’educare (sono i genitori che se ne occupano o dovrebbero occuparsene). È che il tempo della cura per i nipoti è vissuto come un tempo di arricchimento plurale, in due o in tre. Si delinea così una nuova geografi a dei legami che spesso ha un carattere di doppia lealtà per i nipoti: certe cose si fanno solo con i nonni. Ma, di nuovo, non per l’ovvia faccenda che i nonni ti lasciano fare quel che ti pare o che ti «viziano». Piuttosto, perché i nonni sono emittenti di stabilità sulle aspettative dei nipoti.
Questo a me sembra un punto importante. Ho l’impressione che il mestiere di genitore sia diventato un corpo a corpo con l’incertezza, soprattutto con l’incertezza che è in te. I nonni (i nuovi, forse, perché quelli vecchi erano affettuosi o burberi ma percepiti in ogni caso come anziani e, quindi, prossimi e remoti al tempo stesso) sembrano invece fonti di assicurazione e riduzione dell’incertezza e dell’intermittenza delle relazioni familiari. Il che è confermato dal forte tasso di ritualità che piace un sacco ai nipoti. Perché probabilmente è un gioco di conferma da cui traggono identità. I nonni, per dirla con il mio gergo filosofico,  fungono da offerta stabile di riconoscimento per i nipoti. Riconoscimento atteso, e confermato. Riconoscimento in certi modi. Quelli di un legame che ha la leggerezza del gioco ma che ha la serietà di una promessa mantenuta e iterata nel tempo.
Forse, direbbe mia nipote Camilla detta Billa, adesso mi sto gasando un po’ troppo da filosofo. E quindi taccio. Al prossimo giro.