Archivio dell'autore: Redazione Quartieri Tranquilli

Il Campiello di Annamaria Testa – Parole di giorni un po’ meno lontani

Tullio De Mauro – Parole di giorni un po' meno lontani.

Sarà la capacità di raccontare gli anni della guerra, a Roma, unendo la freschezza del ragazzino che l’autore era a quei tempi e l’equilibrata, intelligente, acuta dolcezza dell’uomo grande che è. Sarà lo humour sottile e bonario che percorre le piccole storie familiari e l’impeccabile misura che rende narrabile l’indicibile dei grandi drammi. Sarà il fascino del liceo, raccontato com’era una volta, coi professori magnifici e terribili e l’incantamento per lo studio. O sarà l’amore per le parole a fare di questo libro una lettura che accarezza l’anima. Delizioso.

per gentile concessione di www.nuov&œlig;utile.it

Il libro che mi ha cambiato la vita? L’Odissea

Il libro che mi ha cambiato la vita e` l’Odissea, il primo libro che ho letto: o meglio, il primo che mi e` stato raccontato quando ancora non sapevo leggere. Mio padre era un grecista, e – incaricato ogni sera di raccontare una favola a me e mia sorella – ci raccontava le storie di Ulisse: l’avventura con il Ciclope, l’incontro con Circe, il cavallo di legno dal cui ventre cavo erano usciti i greci che avevano messo Troia a ferro e fuoco… Io aspettavo il momento di andare a dormire per ascoltarle e riascoltarle. Questo, il primo incontro con l’Odissea. Il secondo e` avvenuto a scuola. Al liceo, allora, si leggeva Omero, ovviamente in greco e in metrica. Nel mio caso, il ventitreesimo canto dell’Odissea: Ulisse, tornato in patria dopo vent’anni, ritrova e riabbraccia la moglie. Un Ulisse diverso, non piu` protagonista di fantastiche, mirabolanti avventure. Un uomo come tutti gli altri, o almeno cosi` ho creduto fino a quando, all’inizio della carriera accademica come storica del diritto, ho scoperto che era un uomo speciale e diverso. In quegli anni l’amore per Omero mi aveva spinto ad allargare lo sguardo dal mondo romano a quello greco, alla ricerca dei princìpi etici e sociali che regolavano il mondo descritto nei p&œlig;mi. Nel mio viaggio alla ricerca delle regole, il viaggio di Ulisse non era una metafora, non era l’esperienza attraverso cui l’er&œlig; maturava, formandosi al dolore e grazie a esso trasformandosi, non era l’obiettivo che consentiva a prezzo di infinite fatiche e sofferenze di prendere coscienza della condizione umana. Era un luogo reale, il prototipo di una delle comunita` greche che stavano dandosi le strutture fondamentali di quella che sarebbe diventata la polis. Ulisse, in questa prospettiva, era certamente, da un canto, un personaggio simile agli altri eroi, dei quali condivideva i valori fortemente – per non dire esclusivamente – competitivi. Come gli altri, doveva essere il piu` forte, il piu` coraggioso, doveva imporre la sua volonta` e soprattutto difendere il suo onore vendicando le offese subite, poco importava se volontarie o involontarie. L’etica della vendetta non lasciava spazio a considerazioni di quel genere.
La responsabilita` era la conseguenza del mero rapporto causale azione-evento. Ma Ulisse, che pure condivideva quei valori, alle qualita` eroiche (e ai comportamenti necessari perche´ gli venisse riconosciuto lo statuto eroico) ne aggiungeva altre, che lo rendevano particolare e molto diverso: era anche giusto. Dopo essersi vendicato, uccidendoli, delle offese arrecategli dagli arrogantissimi pretendenti alla mano della moglie, deve ristabilire l’ordine all’interno del suo oikos. I suoi dipendenti lo hanno tradito mettendosi al servizio dei pretendenti: meritano la morte, ma non tutti. Alcuni lo hanno tradito costretti dalla violenza dei Proci. Non avendo agito volontariamente, non hanno commesso alcuna colpa. E Ulisse, in veste di amministratore della giustizia domestica, li risparmia, affermando per la prima volta nella sfera del privato un principio che di li` a poco si affermera` come un principio fondamentale nella sfera pubblica: alla base della responsabilita` non sta il semplice rapporto causa-effetto; sta, per la prima volta, la colpevolezza, che presuppone la volontarieta` dell’azione.
Riletta in questa chiave, l’Odissea e` stata per me un documento fondamentale per seguire la storia che ha condotto i greci dal mondo della vendetta a quello del diritto. Ma non finiscono qui le prospettive di ricerca che mi ha aperto, nel corso degli anni. Altre, completamente diverse, le ho scoperte in seguito. Ad esempio, quella suggerita dal rapporto tra Ulisse e Penelope. Durante l’assenza del marito, Penelope, come ben sappiamo, resiste alla corte pressante dei Proci: ben centootto, ricchi, giovani e aitanti. Ulisse, durante il viaggio di ritorno, passa sette anni con Calipso, la ninfa gentile che gli aveva offerto l’immortalita` se fosse rimasto con lei, sulla sua isola. Ulisse rifiuta: e` un buon marito, ama la moglie, ma questo non gli impedisce, nei sette anni trascorsi con Calipso, di avere da lei due figli (Omero non ne parla, ma ne parlano i suoi commentatori, incerti solo sul numero: uno o due?) E un altro anno lo passa con Circe, che si decide ad abbandonare
solo dopo che i compagni lo hanno esortato a farlo. E anche da lei ha un figlio (di cui, di nuovo, parlano i commentatori).
Come non interrogarsi, leggendo questi episodi, sulle lontane lontanissime origini della doppia morale sessuale?
Potrei continuare, ma credo di avere spiegato perche´ il libro della mia vita e` l’Odissea. Per ragioni diverse – il piacere di sentir raccontare e di leggere, quello di ragionare, quello di studiare – mi ha accompagnato per tutta la vita.

pubblicato per gentile concessione di Longanesi, tratto da I libri ti cambiano la vita. Cento scrittori raccontano cento capolavori, a cura di Romano Montroni.

Alle presentazioni dei libri

Mi dite le vostre sensazioni alle presentazioni dei libri? a me a volte sembra di assistere a una sorta di “recita”; ricordo anni fa un giornalista (un tempo in TV) che presentava un romanzo che secondo me manco aveva letto. E a una presentazione una giovane scrittrice che si dava le arie di Eleonora Duse ma poi il suo giallo non reggeva con corse su tacchi 12 alla velocità di Bolt.

A sangue freddo

Cinque o sei anni fa ho letto A sangue freddo di Truman Capote. E’ un capolavoro, mi si “ripropone” mentalmente spesso. Come se tra lettore e romanzo “giornalistico” si fosse creata una sorta di legame. Ho letto altri romanzi anche osannati dalla critica come Piperno o baciati dalle vendite come quello di Paolo Giordano ma… nel frattempo sono finiti nel dimenticatoio. La domanda è: perché alcuni romanzi “innaffiano” il nostro essere ed altri ci scivolano via come acqua su un impermeabile cerato?

La TV del 1967

Ho letto La forza del destino di Marco Vichi. E’ un buon romanzo giallo, lo consiglio. Solo non mi torna che nel 1967 ci fosse il TG Uno all’ora di pranzo. Io non ero nato ma ricordo che da piccolo la TV iniziava alle 5 più o meno. Qualcuno può aiutarmi? Grazie

Ora comincia la vita di Isabel

Isabel comincia la sua vita, non ha nemmeno il tempo di salutare qualcuno, forse per volere della madre o forse perchè in fondo le va bene così.
Lasciano Barcellona e arrivano in Costa Rica, sul versante dei Caraibi, un luogo sospeso nel tempo, dove la natura domina sovrana su ogni sentimento.
Isabel incontra Dylan un ragazzo misterioso, il primo ragazzo che le farà battere il cuore, più forte.
Una scoperta inquietante capovolgerà ogni progetto: la costa è in pericolo, una compagnia del petrolio vuole distruggerla e Dylan è svanito nel nulla.
Isabel da sola entra nella giungla, a cercare Dylan, sperando di salvare la costa.
Tra personaggi bizzarri, sogni che abitano dentro altri sogni come scatole cinesi, in un'atmosfera da favola dark, questo romanzo ci costringe a fare un viaggio dentro la nostra interiorità più profonda.
Tra emozioni forti, paure incontrollabili, e momenti di divertimento.
Mentre il finale ci regala la promessa più importante che caratterizza ogni vita umana.

Giovanna Giolla, Ora comincia la vita di Isabel, Tea

 

Buon compleanno, Dago!

Buon compleanno, Dago! Piaccia o no, Dago ha cambiato il sistema di comunicazione on line. "È stata una lotta alla sopravvivenza, sono partito da zero, senza nessun editore alle spalle. E, cliccata dopo cliccata, mi sono conquistato il mio spazio”. Piaccia o no, per molti rimane una delle migliori fonti d’informazione. E’ stato il pioniere ( almeno da noi) dell’ infotainment, informare divertendo. E quando sbaglia ( può capitare) paga ditasca sua ( per cause di diffamazione passate e in corso). Non gli si può negare fiuto politico, Roberto è stato tra i primi supporter di Beppe Grillo, in tempi in cui la grande stampa ignorava del tutto le gesta del “guitto” genovese o ne parlava in termini di peste bubbonica.
Dal suo vecchio lavoro di Dj ( la sua vera passione) Dago ha imparato l’arte di miscelare l’alto e il basso. Frulla il trash e lo chic. Il risultato sono le sue cronache utra/cafonal, campionario irresistibile di volti “picassiani” colti dall’ obbiettivo di Umberto Pizzi e specchio (delle brame) del potere godereccio e mangiereccio.
Una volta Pino Aprile, scrittore attento al dettaglio sociale, disse: Se non sei su dagospia, non esisti…Monti o non Monti, il gossip non morirà mai, tutt’al più si aggiorna, si fa update. Il gossip alletta, è un lusso a buon mercato che tutti si possono permettere. E come Matilde Serao insegna: il pettegolezzo è come una puntura di una vespa, fa male ma dura poco.
Il motto di Dago è il gossip di oggi è la notizia di domani…

 

Il cuore in mano

Da almeno trent' anni Milano parla male di sé. In tempi di crisi può essere utile incoraggiare il cambiamento per portare a galla nuove energie e uscire dal quel circolo vizioso che ha condizionato le tante false partenze della città. Bisogna indagare la città sconosciuta dei nuovi quartieri, spiegare se è meglio del mortifero centro storico che la sera si spegne come una candela, se ci sono vitalità interessanti da far emergere, se i sentimenti e le passioni di tanti giovani che si muovono dietro gli anonimi palazzoni di periferia racchiudono speranze ed entusiasmi da coltivare. Salvatore Carrubba è andato a cercare lontano dai salotti, dagli stereotipi modaioli, dal radicalismo chic che per anni ha inchiodato Milano a girare intorno a se stessa, il cuore di una città tante volte dato per scomparso. E Il cuore in mano (Longanesi, pp. 204, 14,50) è il titolo del saggio che invita a guardare Milano con un occhio diverso, a leggere nelle pieghe della società minuta un cambiamento in corso che la città oggi vive, ma non sa ancora riconoscere. Un libro eccentrico, peripatetico, impressionistico e fazioso, avverte l' autore, ex direttore del Sole 24 Ore ed ex assessore alla Cultura nella giunta Albertini, liberale nei principi e rigoroso nelle analisi. Per lui (ma non è il solo a pensarla così) è fuori dalla cerchia dei Navigli e dal quadrilatero «vipposo» del centro la grande occasione di Milano per crescere e ricreare quel sentimento di appartenenza che è stato forza trainante della città. Se non vuole diventare un agglomerato indistinto di strade e di case, la città deve cessare di guardarsi con la lente dei rimpianti e dare passione, inventiva e iniziativa ai suoi quartieri che sempre più diventano, con i prezzi impossibili del centro, i luoghi dei giovani e delle nuove famiglie. La periferia milanese non ha salotti da esibire o nomi importanti da presentare: necessita di cure, di verde, di presidi sociali e culturali, di essere liberata, al pari del centro storico, del mefitico traffico che l' assedia, di avere servizi e funzioni che la miopia della politica ha concentrato nel raggio corto attorno al Duomo. Carrubba si addentra con curiosità e affetto nei luoghi e nelle strade dove è difficile essere ragazzi, e avverte un sollievo quando incontra preti di trincea, volontari che fanno assistenza, presidiano il verde e organizzano doposcuola, circoli che mantengono una funzione culturale, biblioteche (che lui da assessore ha contribuito a salvare) sempre più frequentate da ragazzi. E detta l' agenda di un rinnovato riformismo milanese: periferie, urbanistica, ordine pubblico, integrazione, lavoro, cultura, welfare. A Milano ci sono ancora treni che passano, conclude. Ma la città si deve amare: viverci deve essere una grande opportunità, non una condanna.

Vita da cani

Già nel XIV secolo in Francia si amavano tanto i cani da vestirli in inverno, come mostra una miniatura in cui Carlo VI è preceduto da un piccolo levriere con una gualdrappa ricamata. Nel secolo successivo ecco che Carlo VII ordinava un taglio di stoffa di un bel colore verte squillante per una sua cagnolina. Luigi XI, sulla sua tomba, volle essere rappresentato con la sua spada e il suo cane preferito. Suo figlio, Carlo VIII tollerava persino che i suoi levrieri dormissero sul suo letto, e abbiamo l'ordine di diciotto braccia di tela di lino da stendere sul talamo regale per evitare che i cani sporcassero coperte e lenzuola. Francesco I sosteneva che per accogliere degnamente un ospite illustre, bisognava rallegrare i suoi occhi con una bella donna, un bel cavallo e un bel cane. Enrico III, pazzo per dei cagnolini chiamati Bichon, ne portava diversi in un bel cestino gallonato che portava addirittura a tracolla e da cui non si separava nemmeno per la messa o le udienze con gli ambasciatori. Enrico IV (quello di “Parigi val bene una messa”) e sua moglie, Maria de Medici erano sempre circondati da animali di ogni tipo, anche a tavola. Con Luigi XIII vennero di moda i cosiddetti cagnolini da manicotto: la minuscola razza era originaria dell'Artois, e rimase in auge fino alla metà del XVIII secolo. Erano davvero così piccini da stare dentro al manicotto. Con Luigi XV ecco la moda degli spaniels, dei danesi e dei King Charles; uno di questi, Filou, era il suo prediletto e il re sosteneva che fosse il solo che lo amasse sinceramente. Non stentiamo a crederlo.

Vorrei e non vorrei

Nostro padre ci insegnò a dire "vorrei" invece di "voglio". Aggiungendo che l'esitazione implicita in quella forma verbale nulla avrebbe tolto alla fermezza della volontà, quando si fosse trattato di volere il bene.

Così scrive la sorella di Edoardo Ruffini, storico del diritto che, come il padre Francesco, fu sollevato dalla cattedra per aver rifiutato di giurare fedeltà al Partito fascista.



 

Giocando nel cortile a nascondino

Nessuno ha voglia di raccontare la normalità del Sud, facendo vibrare le corde del sentimento. Nessuno osa più parlarne in termini di psicologia morale. Ed ecco, che appena avevo cercato di descrivere il mondo che io stessa avevo conosciuto da bambina, col recondito intento di capire come mai certi principi e valori nei quali ero cresciuta e ai quali ero stata abituata, avessero finito per essere calpestatia tal punto da finire cancellati nel loro esatto contrario, e cioè nel trionfo di Gomorra, nel regno della violenza senza regole e dell’abuso sistematico, nel dominio incontrastato della crimi- nalità organizzata, trasformando il paradiso della mia infanzia in un luogo osceno, abietto, dal quale fuggire, salvo farne una specie di immensa cloaca abbandonata, pronta ormai ad acco- gliere soltanto gli escrementi di un Cetto Laqualunque o i lazzi antisudisti di Camillo Langone, i lettori più sensibili volevano saperne di più. Riscoprivano non solo una curiosità, ma una passione, forse addirittura un orgoglio per quella terra incogni- ta e remota. Cercavano di capire, di ritrovare una prospettiva, forse perché intuivano che se davvero si vuole cambiare qualco- sa al Sud, bisogna innanzitutto cominciare a cambiare se stessi, a partire dal modo di pensare se stessi. Molti, e io fra questi, sono convinti oggi che il Sud non sia un problema, ma una risorsa. Il Nord è saturo e se dobbiamo puntare sulla crescita, dobbiamo puntare al Sud, dove esiste la materia prima, e cioè la materia grigia, per la crescita di un’economia postindustriale, fondata sull’alta innovazione tecnologica e la valorizzazione del capitale umano. A Sud infatti, ci sono ancora le teste, c’è la demografia, c’è l’energia vitale e soprattutto c’è la fame. Allora, criminalità a parte, il vero problema, forse, è una questione mentale e sta nel modo di pensare se stessi: è la mancanza di autostima, la scarsa cura di sé che nasce dall’assenza di fiducia in se stessi e sfibra il Sud sino all’avvilimento. Un male al quale non è impossibile rimediare.
 

Musica al museo

MILANO – MUSEO BAGATTI VALSECCHI Via Gesù 5
Con la collaborazione dell’ “Associazione Amici del Museo Bagatti Valsecchi”
Ingresso al Museo € 8 – concerto gratuito

♦ giovedì 1 marzo ore 21 “J. S. Bach e Venezia” Ruggero Laganà cembalo
♦ giovedì 8 marzo ore 21 “Balli e Battaglie nel ‘600 e‘700” Graziella Baroli cembalo/
percussioni medi&œlig;vali Nicola Moneta
♦ giovedì 15 marzo ore 21 “Musica intorno al Re Sole: ritratti di una variegata corte fra donne,
amori, giullari e …animali”
cembalo Bruna Panella
voce recitante Francesca Sgorbati Bosi

MILANO CHIESA DEI SS CARLO E VITALE ALLE ABBADESSE
Via Oldofredi 14
ciclo “GEOMETRIE BACHIANE: Integrale per cembalo e confronti”

♦ giovedì 3 maggio ore 21 cembalo Giovanna Scarlato / viola da gamba Nanneke Schaap
♦ giovedì 10 maggio ore 21 cembalo Daniela Fontana
♦ giovedì 17 maggio ore 21 cembalo Barbara Spano flauto dolce Lucia Corini

VARESE
CHIESA DI S. CASSIANO IN VELATE
ciclo “GEOMETRIE BACHIANE: Integrale per cembalo e confronti ”
♦ sabato 12 maggio ore 17.30 cembalo Bruna Panella
♦ sabato 19 maggio ore 17.30 cembalo Barbara Spano / flauto dolce Lucia Corini
♦ sabato 26 maggio ore 17.30 cembalo Daniela Fontana

MILANO
CIRCOLO FILOLOGICO MILANESE Via Clerici 10
♦ sabato 10/17/24 novembre ore 17.30 J.S.BACH: “Integrale dei concerti per 1,2,3 e 4 cembali e archi”
“Carisch Ensemble” diretto da Ruggero Laganà

Info: 02-59903867 / 02-26414772 / 333-7321940

Cani, gatti, scoiattoli e signore

Nel 2011 si è festeggiato il 250° anniversario della nascita della professione veterinaria in Francia, avvenuta durante il regno di Luigi XV e precisamente il 4 agosto 1761. si doveva seguire un corso di 4 anni di studio.
Uno dei motivi che potrebbero aver portato a quest'importante progresso fu forse il massiccio ricorso delle dame francesi a circondarsi di animali da compagnia, che potevano essere cani, gatti ma anche scimmiette, topini bianchi e scoiattoli. Le dame riservavano gradi cure ai loro beniamini, compreso farli ritrarre da bravi pittori o immortalarli nel bronzo o nel marmo.
Fino ad allora gli animali venivano curati dai maniscalchi e inizialmente i contadini rifiutarono i primi veterinari, che per farsi finalmente accettare dovettero dedicarsi prima… a far partorire le donne, che facevano da sole o tutt'al più ricorrevano alle levatrici. Dimostrato in questo modo la loro perizia sulle donne, furono pian piano accettati per gli animali.

Pilloline zuccherate di oppio

Nel XVIII secolo l'oppio veniva liberamente venduto dai profumieri più in voga, che lo proponevano in pilloline zuccherate. L'oppio veniva preso per facilitare il sonno, calmare i nervi o anche per lenire qualche piccola contrarietà. Le dame, purtroppo, ne facevano gran uso: madame de Deffand (afflitta da una tremenda insonnia) ne descrive così gli effetti: “Suscita allegria e riempie l'anima di speranze, anche le più lusinghiere. Ma appena il suo effetto cessa, ti precipita nel languore, nella malinconia, nel letargo. Bisogna aumentarne la dose ogni tre mesi. Fa diminuire l'appetito, danneggia i nervi. Chi ne fa uso diventa magro e giallo, e quando dal giallo di passa al verde la morte è vicina.”

Buon compleanno Antonia!

AL Teatro Franco Parenti dal 14 al 19 febbraio BUON COMPLEANNO ANTONIA: TEATRO;P&œlig;SIA /CINEMA /FOTOGRAFIA
L’infinita speranza di un ritorno è un verso di Antonia Pozzi che dà il titolo allo spettacolo di Elisabetta Vergani, anche assoluta protagonista, su Antonia Pozzi, la p&œlig;tessa milanese, uno dei casi letterari piu’ rilevanti degli ultimi decenni.
La p&œlig;tessa, nata a Milano il 13 febbraio del 1912 e morta suicida a 26 anni senza aver pubblicato una sola p&œlig;sia, è riconosciuta come una delle voci piu’alte della cultura italiana del Novecento. Lo spettacolo è il punto centrale di un percorso (mostra, convegno, proiezioni) di avvicinamento alla vita e alla p&œlig;sia di questa strana e anomala figura di p&œlig;tessa.
Il profondo lavoro drammaturgico svolto da Elisabetta Vergani con una sensibilità e una dedizione assolute è un montaggio cronologico delle lettere e delle p&œlig;sie della p&œlig;tessa di Pasturo che qui riprendono vita attraverso i mezzi del teatro con gli oggetti e le fotografie che avvolgono il racconto della vita e del contesto dove si svolse l’avventura terrena di Antonia.
Ma a sorprenderci è il risultato dello spettacolo che inizia dalla fine, dal momento della morte,1938, e come in un montaggio cinematografico torna indietro .Si parla, si racconta di tormenti di una sensibile anima, che Elisabetta Vergani riesce a rendere in tutta la disperata vitalità con gioia e la forza della p&œlig;sia. Ne sortisce una serata unica alla scoperta’ di una sorprendente figura femminile, di cui si sente il bisogno di approfondimento e scoperta,anche curatrice del progetto.
Non un commemorazione, non un saggio, non un recital di p&œlig;sia, ma un vero spettacolo che riesce ad emozionare e a far riflettere sui tanti temi che vengono evidenziati, questo grazie ad una regia discreta, pudica di Maurizio Schmdt che si mette a dispozione del progetto e soprattutto all’attrice Elisabetta Vergani.
E’ lei Antonia Pozzi,ma senza camuffamenti .Una dizione emozinante e una sensibilità forte . “Un fuoco bianco. 

La moda nel Settecento

E' nel XVIII secolo, in Francia, che nasce l'idea di 'moda' che noi conosciamo. Grazie a Luigi XIV che nel XVII obbliga i suoi cortigiani a un abbigliamento sempre più costoso, con Luigi XV quelli che prima erano onesti artigiani diventano degli 'stilisti' affermati, corteggiati, osannati e… strapagati.
Calzolai, sarte, parrucchieri, cappellai, profumieri, gioiellieri, tessitori di stoffe e di nastri sfruttano a loro vantaggio una società dove si sacrifica tutto all'apparenza, e lanciano continuamente delle novità che, se verranno portati dalle persone giuste, diventeranno un 'must' per tutti, non solo in Francia ma anche in Europa. E dureranno sempre meno, continuamente sostituite da altre novità 'irrinunciabili'. Non adeguarsi, non rinnovare in tempo il guardaroba espone al crimine peggiore di tutti: essere ridicoli.
Le nuove creazioni prendono i nomi dagli scandali politici, dell'attualità, dal personaggio del giorno sulla bocca di tutti e dal testimonial famoso che le esibisce.
I calzolai Charpentier e Bourbon trattano con familiarità le duchesse per le quali creano scarpette in raso, seta, velluto, con o senza talloni ma sempre col tacco di cinque, sette anche nove centimetri, e fibbie preziose in oro, argento o diamanti.
I coiffeur usurpano il mestiere alle pettinatrici grazie a pettinature sempre più complesse e imponenti, scrivono trattati, aprono accademie. I loro nomi sono Frison, Legros, Frédéric, Léonard, Lagarde, Beaulard.
La Bertin diventa famosa perché i suoi modelli sono indossati da Maria Antonietta e diverrà tanto potente da essere chiamata 'la ministra della moda'. Nascono le riviste illustrate per esportare ovunque il gusto 'alla francese'.
Anche la parola 'moda' nasce allora. Prima si parlava di 'modes', al plurale. Quando le scoperte scientifiche si fanno sempre più numerose ecco imporsi il vocabolo 'moderne' e di conseguenza abiti, scarpe, capelli, pettinature 'à la moderne', che con la mania dell'abbreviazione tipica dei parigini diventa 'à la mode'.

Breve storia del pane/2

Le adulterazioni del pane sono vecchie come l'uomo: si adulterava la farina per disonestà (dato che il grano era caro), a volte con esiti mortali. Ma la si adulterava anche per povertà, aggiungendo cereali meno pregiati, erbe, castagne, nocciole…e, quando arrivarono dall'America, anche mais e patate.

Nel Medio Evo il fornaio era obbligato per legge a cuocere bene il pane (malcotto pesa di più! Quindi si lucra sul prezzo). Se il fornaio faceva il furbo e veniva scoperto, doveva fare altro pane e risarcire i clienti (bei tempi!).

I marinai invece si portavano dietro la 'galletta' che era pane cotto due volte e richiedeva di essere 'riumidificata' con acqua, aceto, vino o altro per poterla mangiare.

Una cosa è certa: in tutti i p&ælig;si il pane dei ricchi era più buono e nutriente, quello dei poveri cattivo e non di rado dannoso per la salute.

A proposito: la famosa frase “Se il popolo non ha pane, che mangi brioches” la povera Maria Antonietta non l'ha mai detta.