Il corpo del reato

di

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È un dato certo che il carcere genera sofferenza e malattia. È una fabbrica di produzione e diffusione di handicap psicofisici. “Sorvegliare e redimere”, slogan applicato in tutte le varianti e devianze. Dopo l’atto pubblico del processo, con l’internamento, il corpo dell’inquisito perde visibilità, diventa un corpo ristretto, un corpo immagine-simbolo di una risposta sociale, prodotto dai media, dall’interpretazione degli agenti preposti alla prima accoglienza, identificando, per tipologia di reato, il trattamento e il suo collocamento. È carne, senza occhi, senza parola, senza memoria, senza diritto di replica. È un “corpo del reato”, corpo simbolo di tutte le aspettative sociali che chiedono il diritto alla sicurezza, consegnando il condannato alla rassicurante interdizione perpetua della sicurezza dei propri diritti.

 

Esiste quindi un’espropriazione dell’identità, un furto della sua immagine. E al corpo fisico cosa succede? La pena della reclusione è una pena corporale, qualcosa che dà dolore fisico e che produce malattia e morte. Dalla tortura dello spazio, alla tortura del tempo e della comunicazione. Al recluso è chiesto di farsi regola esso stesso, regola di se stesso, contro se stesso. Le mutilazioni proprie della perdita della libertà, provocano immobilismo, paralisi dell’azione fisica e cognitiva.

I sintomi riscontrati nella popolazione detenuta sono:

  • Circa un quarto già dai primi giorni di detenzione soffre di vertigini.
  • L’olfatto è inizialmente ottenebrato, poi annullato nel 31% dei casi.
  • Entro i primi 4 mesi un terzo soffre di peggioramento della vista.
  • Il 60% accusa entro i primi 6 mesi disturbi all’udito, per stati d’iperacutezza
  • Fin dai primi giorni l’80% lamenta perdita d’energia.
  • Il 33% patisce sensazioni di freddo, anche nei periodi estivi

 

Con Antigone si è rilevato che gli psicofarmaci sono la categoria maggiormente somministrata, seguiti da antidolorifici, antinfiammatori, anti-ipertensivi e antibiotici. Si riflette che è difficile comprendere quanto l’uso massiccio di psicofarmaci sia la risposta a un disagio psichico diffuso nel carcere oppure sia una strategia di controllo e un modo per mantenere l’ordine interno. Il detenuto deve abbandonare il suo modo d’essere, le sue cose, il suo modo di pensare, di fare, il modo di rappresentarsi a se stesso e agli altri, dovrà ridefinirsi non solo rispetto se stesso, ma anche verso i nuovi compagni. Il detenuto è spogliato del suo passato, gli è dato un presente obbligato, il futuro è la sua rieducazione o viceversa? Sono recisi i contatti con il ruolo sociale che deteneva prima; viene privato degli effetti personali, in altre parole gli sono presi gli oggetti che lo potrebbero identificare (la perquisizione è una prassi normale di controllo e di disidentificazione): viene privato di uno spazio personale, della capacità di decidere autonomamente, in quanto decidono per lui e impara a fare la “ domandina “ intesa nel suo alto valore pedagogico e trattamentale! Si realizza in questo modo la totale dipendenza del recluso nei confronti dell’Istituzione. Questa dipendenza psicologica si ripercuote nell’equilibrio della persona creando scompensi anche di grave entità:

  • Claustrofobia: l’isolamento in uno spazio chiuso e invariato provoca sensazioni di compressione spaziale, simili al panico.
  • Irritabilità permanente: manifestazioni di profondi sentimenti di rabbia, senza possibilità di scaricarla. Molti detenuti si sentono violati in ogni istante della giornata: Nel tempo questi disturbi evolveranno in patologie psicosomatiche quali: ulcere, gastriti, cefalee, infiammazioni articolari, muscolari, bruxismo, perdita dentaria.
  • Depressione: mancando un obiettivo esterno, la rabbia viene rivolta verso se stessi e vissuta come depressione, la quale se non supportata, si trasformerà in un motore d’autodistruzione con il passaggio all’atto in auto mutilazione e suicidio
  • Abbandono difensivo: è un ritiro proiettivo di sé da un ambiente ostile. Lo scopo sembra essere di desensibilizzarsi al fine di diminuire le sensazioni di sofferenza.
  • Apatia, perdita delle capacità intellettive: si ha una notevole perdita della capacità di concentrarsi. La diminuzione dell’abilità di focalizzare l’attenzione è un chiaro segno di disinteresse sia per il mondo interiore sia esterno

Questo e tanto altro dimostrano che il carcere è il luogo del deterioramento dell’uomo. Il cambiamento deve partire a restituire umanità alle strutture, edifici penitenziari, potenziando le attività lavorative, ricreative, culturali al fine di rieducare l’individuo al senso di responsabilità civile, seguendo agevolando in seguito il suo inserimento nel tessuto sociale. Il carcere non può continuare a essere l’alibi di ciò che non si può fare, non si sa fare, non si vuol fare. Non si gioca sul carcere tutta la partita della giustizia. La difesa e la sicurezza della società, non compete né al carcere né alla magistratura. Piuttosto alle istituzioni e ancor prima all’intera società.

Fonti: Antigone, DAP, AMAPI

 

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