Maria vive i suoi giorni senza sogni senza luce senza futuro nel degrado più disperato di Castel Volturno, circondata da monnezza anche umana. Maria si prende cura della madre catatonica, ha un pittbull al guinzaglio che si porta sempre appresso e lavora a servizio della mezzana Zi Marì, traghettando aldilà del fiume prostitute nere prossime a partorire bimbi prenotati da coppie senza figli. Ma l’esistenza di Maria viene travolta dall’attesa di un figlio suo, cosa creduta impossibile visto che un abuso subito da ragazzina l’aveva resa incapace di riprodursi. “Anche la speranza è un vizio che nessuno riesce mai a togliersi completamente”: sono parole di Giorgio Scerbanenco, sono le parole che Edoardo De Angelis riporta all’inizio de Il vizio della speranza, il suo quarto lungometraggio, girato negli stessi luoghi del litorale Domizio dell’applaudito Indivisibili, un film che si poggia su delle intenzioni nobili e si fa domande significative (la nascita nella rinascita, il potere rivoluzionario della speranza) ma che abbonda di allegorie e simbolismi (nomi compresi) e finisce col privilegiare al racconto una confezione troppo compiaciuta (le distese di monnezza hanno un che di allestito, e così le pozzanghere). Brava la protagonista Pina Turco, intensa e grintosa Maria cui la cinepresa non si stacca un secondo di dosso, superlative Marina Confalone e Cristina Donadio, fermatevi per i titoli di coda.