Via dalla pazza folla, la storia è nota: Thomas Hardy la scrisse nel 1874, John Schlesinger la filmò nel 1967, preceduto dalla versione muta di Laurence Trimble del 1915.
1870, campagna inglese: tre uomini – il taciturno pastore Gabriel Oak, il ricco vicino William Bolwood e l’arrogante sciupafemmine tenente Franck Troy – si contendono Bathsebah Everdene, un’ereditiera in cerca di emancipazione e indipendenza. La ragazza capitola di fronte al fascino della divisa sposando l’ultimo della lista che la porta sul lastrico e che poi viene creduto morto annegato mentre invece è vivo e vegeto. A farlo fuori per davvero ci pensa il secondo pretendente – col quale intanto la ragazza stava per fidanzarsi – . Eliminato dalla lista pure il vicino di fattoria – che finisce in galera – finalmente Bathsebah si fidanza col primo – sì sì, col pastore taciturno: finalmente – che l’amava dal primo incontro, cioè dall’inizio del film.
Insomma, anche chi non ha letto il romanzo né ha visto la versione con Julie Christie, Peter Finch, Terence Stamp e Alan Bates (già: che cast!) ben comprende come la faccenda sia pensata per accalorare soprattutto il pubblico femminile e per dare emozioni, scosse e palpiti che qui invece latitano cedendo il posto agli sbadigli, anche se la ricostruzione è accurata, con le luci giuste, i vestiti del tempo, gli arcobaleni dopo la pioggia, i frutti che maturano, le oche che passeggiano felici, le pecore che belano, le belle musiche. E gli attori (Carey Mulligan, Matthias Schoenaerts e Michael Sheen) ce la mettono tutta ma invano, e poi e poi… riandate qualche riga più su a rileggervi il cast della versione del ’67.
Per chiudere, una riflessione: chissà perché il talentuoso danese Vinterberg (quello de Il sospetto, bellissimo film di qualche anno fa: se non lo avete visto, recuperatelo) ha voluto filmare una storia antica e già tanto raccontata, chissà.
Come era dura la vita sentimentale nell’ Ottocento in Inghilterra e anche altrove. Prima di dichiararsi un uomo e una donna facevano passare anni di rinvii e di attese. Sarà stato davvero così oppure erano solo falsità, finzioni e convenzioni da ipocriti ? Molto probabile perchè i figli venivano al mondo numerosi e da genitori molto giovani. Considerato che i bambini non nascono sotto i cavoli che succedeva nella realtà di tutti i giorni tra il sesso maschile e quello femminile ? In ogni caso il film di cui si parla è improntato ad una noia mortale. Prati verdi, pascoli di pecore, case agiate e catapecchie si alterano sullo schermo. La protagonista Carey Mulligan ha il faccino carino, ma il suo aspetto è improbabile per una signorina di campagna benestante di due secoli fa’. Fuori parte anche i due interpreti maschili, Michael Sheen nei panni del ricco possidente infelice e il belga Matthias Schoenaerts in quelli del pecoraio probabilmente dal profumo non proprio irresistibile essendo, poveraccio, a contatto quotidiano con gli ovini !! E’ impossibile non ricordare ( lo fa anche Ilaria) il precedente “Via dalla pazza folla” del 1971 che il sottoscritto per motivi anagrafici ha vito tanti anni fa’ al cinema. Paragonare gli attori di allora, Peer Finch, Terence Stamp, Alan Bates, Julie Christie, stupendi, credibili, cinematografici, ai volti di oggi è fatica sprecata ! Non tutto però girava anche nell’ opera diretta da John Schlesinger. Sentite cosa scriveva il critico Tullio Kezich: il film “offre bei paesaggi fotografici a colori, mandrie di pecore, suggestive canzoni popolari, gradevoli costumi ottocenteschi. Eppure la noia ha tutto il tempo di insinuarsi… Il cinema britannico torna ai ritmi sonnolenti del romanzo sceneggiato…..I giovani leoni della generazione ribelle, da Julie Chistie a Terence Stamp, si sono integrati nel sistema; e un film come questo sembra annunciare che la temperatura della Swinging London è in ribasso. L a moneta del Free Cinema è ormai svalutata come la sterlina”. Solo per questo forse non era il caso di insistere in un remake………
Ma siete ambedue bravissimi! Q.T. ha in dono ciò che Cor e Rep non possono offrire ai lettori. Insomma … siamo fortunati.
E’ vero, brava Ilaria. Scrivere di cinema senza la supponenza di dire al lettore- spettatore cosa deve vedere e cosa deve evitare, è un’ espressione di civiltà e democrazia….Però il critico ha anche il compito di indirizzare le persone desiderose di andare al cinema con gli strumenti culturali in suo possesso. E’ risaputo comunque che vi sono due livelli di interpretazione di una pellicola. Spesso i film vincitori dei festival hanno pessimi riscontri negli incassi dopo la loro uscita nelle sale. La visione di un semplice spettatore e quella di un addetto ai lavori può essere molto diversa. Alcuni anni fa’ la Mostra del Cinema di Venezia organizzò una retrospettiva intitolata “E il Leone non volò”. Ripercorreva la storia di tutte le opere vincitrici del Leone d’ oro, che però poi non uscirono nelle sale a causa della loro complissità espressiva……. Pubblico e critica è da sempre un rapporto complicato e difficile…