QT8, Quartiere sperimentale dell’ottava Triennale di Milano (3)

di

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La piazza, la chiesa e il mercato.

 Un quartiere realizza la sua identità, si assicura la certezza di una struttura sociale, quando le presenze individuali possono comunicare, consapevolmente, tra di loro. Gli scambi, di idee e di cose, suggeriti nel dinamismo di una piazza, si innalzano nel luogo di culto e si incrociano orizzontalmente nel movimento instancabile del mercato.

La Chiesa dedicata a Maria Nascente (Magistretti, Tedeschi; 1947) è un esempio architettonico importante. “La pianta circolare del progetto sottolinea una visione sperimentale per la sua planimetria, la volumetria e persino, si dice, per l’interpretazione della liturgia” (Bottoni). Struttura in cemento armato, d’avanguardia per l’epoca, sostenuta solo dai muri e dai pilastri perimetrali. Mattoni a vista, ispirati alla tradizione delle chiese lombarde. Un portico e il battistero, sempre di forma circolare. Il matroneo è circondato da un muro di mattoni a nido d’ape, elemento ricorrente nell’architettura del quartiere.

Il Mercato è stato progettato nel 1961. All’inizio, i servizi commerciali si limitavano solo a una schiera di negozi. I Negozi (Bottoni, 1951). Corpo unico per sette esercizi indipendenti; al piano superiore le abitazioni dei negozianti. Sul retro un accesso comune e mosaici sui grandi parapetti dei balconi, con colori diversi per ogni sezione.

La piazza non è mai stata realizzata. La vita comune perdeva i suoi spazi sociali.

Palazzo Ina-casa a 11 piani (Lingeri, Zuccoli) 1951

Undici piani di appartamenti a riscatto, esposti al sole su un grande prato. Scale esterne collegate alle abitazioni da ballatoi, sfalsati a tutela della vita privata. Nel palazzo erano in mostra, nei giorni della Triennale, esempi di arredamento: il design di grandi architetti aggiungeva valore agli appartamenti, dotati anche di luminosi soggiorni passanti. Nell’atrio mosaici di Roberto Crippa, Gianni Dova e Atanasio Soldati.

Nino e la guerra

La vita era scandita dai desideri, dai sogni dei padri e delle madri, dalla voglia di realizzare presto il disegno del futuro. L’intenzione collettiva, in mancanza di molte strutture, modellava la realtà sociale recuperando i suoi spazi istintivamente.

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Il palazzone era il cuore pulsante del quartiere: disincantato, tumultuoso, irriverente. Meravigliosa megattera bianca adagiata al centro della vita, ingiallita nel tempo, come le pagine di un libro. Questo agglomerato di oggettività aveva anche un’anima scanzonata e musicale, profumata di giovinezza. Certi suoi ragazzi, dal sorriso beffardo, erano già vivaci musicisti, tanto che da grandi sarebbero diventati importanti professionisti. Proprio loro, con allegria, avevano scritto l’inno del palazzone, che ogni domenica mattina risuonava nell’atrio. La musica si ripeteva per ore, finché la voce tonante di un padre fermava la scena con un “bastaaa” indiscutibile. Le note sono ancora lì, in quell’atrio, per chi le sa ascoltare.

Verso l’estate, tra i giardini colorati di fiori e la dolcezza dei primi frutti sui rami, ogni anno scoppiava la guerra villette-palazzone. Non si è mai saputo per quale motivo, non esistevano differenze di classe tra le villette e il palazzone. Ma la guerra veniva dichiarata comunque: le mamme e i più piccoli si ritiravano in casa con le tapparelle abbassate. Fionde, fatte con forcelle di rami e avanzi di copertoni di biciclette, sassi e cerbottane uscivano dall’inaccessibile fortino tra i rovi. Per ore la battaglia non si fermava, qualche vetro andava in pezzi. Grida di guerra e inseguimenti. Si facevano prigionieri.

Nino era un grande sognatore, un timido fanciullo che stava nelle retrovie e seguiva i più grandi perché gli svelavano i segreti della vita. Leggeva molto e fischiettava come un usignolo. Una zia gli aveva insegnato, tra tante canzoni, “O Venezia”. “Sai Nino, quasi sicuramente, la musica è del maestro Giuseppe Verdi; vedrai, conoscere il valore del canto popolare ti aiuterà nella vita”.

Nino era stato fatto prigioniero e legato alla grande quercia. Gli avevano intimato di non parlare, assolutamente. Doveva restare lì, in silenzio. Era una prova per crescere. La mamma lo aveva cercato fino al buio della sera, gridando il suo nome. Lui zitto. Poi, in un prato pieno di lucciole, la giovane donna aveva riconosciuto il fischiettare gentile del suo Nino. Lo aveva slegato e portato a casa.

 O Venezia che sei la più bella

e tu di Mantova che sei la più forte

gira l’acqua intorno alle porte

sarà difficile poterti pigliar.

 

O Venezia, ti vuoi maritare?

E per marito ti daremo Ancona

e per dote le chiavi di Roma

e per anello le onde del mar”

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