“Il QT8 è stato un atto progettuale pionieristico e coraggioso, un esempio di innovazione appoggiato dall’intelligenza di una teoria urbanistica d’avanguardia”.
La Triennale di Milano nel 1947, in occasione della sua ottava edizione, ha dato vita a un evento completamente innovativo, rispetto alle edizioni precedenti: un progetto che, superando il limite della semplice esposizione temporanea di prototipi abitativi, entrava direttamente nel tessuto sociale.
Il QT8, “quartiere sperimentale pilota”, è nato dall’esigenza di una ricostruzione edilizia postbellica: la sua architettura formava lo spazio della libertà collettiva riconquistata e di una libertà personale in cui esprimere la propria individualità. Urbanistica e architettura dialogavano con il sociale e il sociale con il privato.
L’arch. Piero Bottoni, nominato commissario straordinario della Triennale, già dal 1945 aveva avviato un Centro Studi, raggruppando in commissioni un corpo di quasi cento tra i migliori architetti e ingegneri, pittori e tecnici di ogni ramo.
Il progetto originale dedicava una grande attenzione alla vita pubblica, alla comunicazione, al’organizzazione di una nuova struttura sociale. Negli anni del dopoguerra il sapere collettivo era fortemente sentito: i drammatici eventi, appena avvenuti, portavano le capacità dei singoli verso una partecipazione unitaria, una solidarietà in grado di annullare lo svantaggio di molti. Nel centro vitale del quartiere, in prossimità della chiesa, il piano di lavoro prevedeva almeno una piazza circondata da portici, il centro sociale, la scuola, gli asili, il club dei ragazzi, gruppi di negozi, il mercato comunale, un teatro, la banca, la posta, i centri sportivi, insomma le parti indispensabili di un tessuto sociale completo. Molto, troppo non è stato realizzato e il progetto aspetta ancora.
Piccola città del futuro, precipitata nel passato senza un presente.
Le case erano luminose, di fresco intonaco, quasi tutte bianchissime, tanto da ricordare soltanto un cielo azzurro a definirne i contorni. Le bambine passeggiavano per mano balzellando e cantavano, poi si fermavano e saltavano la corda. I maschi correvano fischiettando nei prati, pieni d’erba e di ortiche, a giocare a pallone. La struttura incompiuta della società lasciava spazio solo a gesti individuali, ai sogni, ai suoni del quotidiano, alla ritmica filastrocca delle bimbe che giocavano a campana sulla strada, con un piccolo sasso e un gessetto, alla voce delle mamme che chiamavano i figli per andare a tavola. Loro lasciavano le bici giù in terra e correvano a casa.
Da una parte all’altra del quartiere tutto era nuovo, libero da sovrastrutture, era come l’infanzia. Il primo confine partiva dall’Ippodromo, verdissimo campo, al cui centro cresceva il grano, più alto delle teste dei bambini. D’estate, qualche piccolo, spavaldo esploratore superava l’alto muro di cinta e si sdraiava lì, per ore, a guardare il cielo e creare realtà fantastiche in mezzo alle spighe, i papaveri e i fiordalisi. Esistono ancora i fiordalisi? Su quelle piste, tra il calpestio veloce del galoppo di nervosi cavalli, si mormoravano ricordi dei passi lontani di Hemingway, entrato alla fine la grande guerra nel quartiere che sorgerà, dopo un’altra guerra, per una libertà sociale, costruttiva e moderna.
“(…) Noi quattro andammo a San Siro in una carrozza scoperta. Era una bella giornata e attraversammo il Parco e seguimmo il tranvai e poi fuori dalla città dove la strada era polverosa. C’erano ville con le cancellate di ferro e grandi giardini traboccanti di vegetazione, e fossi con l’acqua corrente e orti verdi con la polvere sulle foglie. Attraverso la pianura si vedevano le fattorie e le fertili tenute verdi coi loro canali di irrigazione e le montagne a nord. Molte carrozze entravano nell’ippodromo e gli inservienti al cancello ci lasciarono entrare senza biglietto perché eravamo in uniforme. Scendemmo dalla carrozza; comprammo i programmi e attraversammo a piedi il prato e poi la soffice pista del percorso verso il recinto del peso. Le tribune del pesage erano antiche e fatte di legno e i totalizzatori erano sotto le tribune e allineati vicino agli stalli. C’era una folla di soldati lungo lo steccato del prato. Il pesage era pieno di gente e facevano passeggiare i cavalli in cerchio sotto gli alberi dietro alla tribuna centrale. (…) Salimmo sulla tribuna centrale a guardare la corsa. (…) Allora non c’erano i nastri a San Siro e il commissario allineò tutti i cavalli, parevano piccolissimi giù nella pista, e poi diede il via con uno schiocco della lunga frusta. (…)” (Da “Addio alle armi” di Ernest Hemingway, traduzione italiana di Fernanda Pivano, Milano, Mondadori).
continua …