Quest’anno, il 27 gennaio, c’è stata la ricorrenza del sessantanovesimo anniversario della liberazione di Auschwitz, “la chiusura della fabbrica della morte”.
Sessantanove anni …
Quando si parla di ricorrenze, le cifre suonano più importanti, si stampano con facilità nell’attenzione di tutti … anche di chi ha solo sfiorato con superficialità l’argomento. La cifra risuona con maggiore pienezza, e, forse proprio per questo, rischia a volte di scivolare nella retorica, nelle parole vuote e di circostanza, nella celebrazione che nasce e muore nelle ventiquattro ore. Ma ci sono pochi casi – e la Shoah è uno di questi – in cui la retorica è concessa. Come una sorta di filtro, quasi come se fosse un velo protettivo, perché i fatti crudi non ci intontiscano con la loro violenza. Credo che una certa dose di retorica debba essere indispensabile affinché il ricordo duri. Qualcuno forse si chiederà perché è importante che il ricordo duri, in un mondo che oggi più che mai, sperimenta altra morte, altri orrori, altri incontrollabili focolai di odio? Forse perché credo che non dobbiamo mai relegare un simile evento fra le categorie dell’insensato e del mostruoso, “PERCHÈ NON C’E’ NULLA CHE CI DÀ LA CERTEZZA CHE NON POSSA RIPETERSI” .
In questi ultimi anni, molti testimoni della Shoah sono stati criticati, come se il racconto del particolare, infastidisse la visione completa dell’evento, come se i ricordi individuali soffrissero di troppe contaminazioni postume, di inciampi della memoria, di suggestioni nemiche di un autentica comprensione. Può essere, rispetto a un documentario sui campi di sterminio, che il racconto del testimone prema più sull’emotività che sulla ragione di chi ascolta, e questo non fa altro che spostare il baricentro della conoscenza dall’intera catena di montaggio dell’orrore a un’unica figura scheletrica e attonita al centro del nulla. Al giorno d’oggi, e forse soprattutto ai giovani, così lontani dal passato, sempre bombardati da informazioni che convivono con la violenza, è difficile far comprendere.
Non è da molto tempo che la scuola italiana ha scoperto quanto l’insegnamento della Shoah possa rilevarsi trasversale: un occasione educativa, un evento che, al di là della sua centralità storica, si dimostra capace di aprire ai grandi temi sull’indifferenza, sulla violenza, sulla tolleranza e la convivenza tra culture diverse. Credo che lo stesso insegnamento dovrebbe essere collocato anche nel contesto sociale e politico, proprio per promuovere una maggiore integrazione reale tra storia e memoria. Tutto ciò potrebbe contribuire a dare forza e coraggio per cercare di riuscire a non far mai dimenticare ciò che è successo in quei lontani anni, e che purtroppo in misura molto ridotta capita anche oggi: ” la cattiveria e la stupida pazzia che c’è sempre dietro l’angolo”. Conoscere il passato è anche dare un contributo soprattutto per riflettere sulla fatica spesa da chi ci ha preceduto per conquistare la libertà di cui oggi noi tutti usufruiamo.
E a questo punto vorrei esprimere un piccolo pensiero personale:”ognuno di noi ha un destino scritto da qualche parte … la via che risale al passato sicuramente è dolorosa, però credo che molti si dovrebbero impegnare ugualmente nella speranza di contribuire per far sì che ciò che è accaduto non si ripeti più”.
A volte basta “NON DIMENTICARE”.