Ma che cosa è la normalità? La risposta più ovvia per me sarebbe: lavorare, dormire, fare cose, vedere gente, i bambini da prendere a scuola, a nuoto, al corso di inglese, il cane da portare a passeggio, sfamare, il gatto da accarezzare.. Insomma la quotidianità dei gesti…. in fondo sempre gli stessi, ripetuti, cadenzati.
Normalità che cadenza la vita: si nasce, si cresce, finiscono i tempi dei giochi, iniziano i tempi delle responsabilità e poi la senilità, ed intanto il tempo che passa perpetua un cammino che è di fatto uguale di padre in figlio…
Certo, se non divieni invisibile!!! … Si perché se ti “ammali” della malattia dell’invisibilità tutto cambia.
L’invisibilità è una “malattia” strana, colpisce quando meno te lo aspetti e si manifesta piano piano. Parte sempre dalla cerchia più esterna del proprio mondo: camminando per strada la gente non ti nota; in un’affascinante riunione di condominio, cerchi invano di prendere la parola ma il mondo non ti sente prima e non ti vede poi…
Poi mano a mano che la malattia avanza, il cerchio di invisibilità intorno a te si stringe sempre più. Coinvolge le tue conoscenze: il panettiere, il custode … ecco…diventi sempre più invisibile e anche fare la fila alla posta diventa difficile … Ti rendi conto che tu sei il vuoto!
Jean-Claude Izzo l’invisibilità la descrive tristemente bene. È un virus da cui è tragicamente semplice venire contagiati, basta perdere il posto di lavoro, oppure un amore, oppure non superare una prova (un esame all’università, un colloquio) …Insomma entrare nel tunnel della propria mente del non riuscire, del non capire come si può fare… Il passo per automarchiarsi con il tatuaggio del fallito è breve .. Troppo breve.. Ed è un tatuaggio impresso nel profondo della propria pelle … Senza possibilità di risalita… Così si diventa invisibili.
E gli invisibili davvero non li vede nessuno.
Camminando per le strade di Milano in questi giorni mi sono reso conto che gli invisibili sono davvero tanti: C’è un signore che nelle notti non troppo fredde incrocio alla mattina nel mio giro con il bracco alla collina dei ciliegi. Dorme su una panchina di pietra, tutta la sua roba sta in un trolley, ogni mattina si sveglia si veste, mette giacca e cravatta, rimette a posto la sua valigia e inizia la sua giornata. Noi “normali” diremmo che è un barbone, un clochard. Invece lui è “distinto”, pronto per andare in ufficio, se non fosse che forse l’ufficio non c’è e con gli anni i suoi vestiti sono diventanti sempre più lisi come i suoi occhi ormai privi di speranza (spero davvero di sbagliarmi)
L’altro giorno ho visto un uomo in pieno centro, mentre la gente si affrettava per le ultime compere di natale, inginocchiato su un giornale con un cappello che chiedeva la carità, o meglio non la chiedeva, stava lì… Era vestito bene, il viso pulito e sbarbato, ma gli occhi velati e non guardava in viso nessuno, stava in ginocchio come a espiare una colpa.. Ma che colpa? La perdita di un lavoro? La necessità di sfamarsi senza rubare? Era anche lui invisibile, come Garabombo.
Garabombo, quello di Manuel Scorza, ha dovuto raggiungere il fondo per capire che quella che era una malattia – l’invisibilità – in realtà poteva essere una arma di riscossa e rivoluzione. Garabombo da malato diventa eroe.
Non credo che gli invisibili di cui ho parlato abbiano la forza che serve, Garabombo ci è riuscito perché aveva la comunità dalla sua, ed è quello che serve anche ai nostri invisibili, avere la comunità dei normali dalla loro parte. Sono troppi? Sì è vero sono tanti, anzi forse sono anche troppi, ma lo sono solo perché siamo noi normali che li rendiamo tanti. Basterebbe cambiare un po’ le regole del grande gioco sociale in cui viviamo.
Buon anno a tutti gli invisibili.
ciao Francesco, intanto hai cominciato col renderli visibili. tutti noi li abbiamo visti, proprio loro qui a Milano, o altri, come loro, altrove. Tutti noi, bloccati dalla paura di specchiarci in loro o dall’imbarazzo di confrontarci con chi non è un povero “rassicurante”, vale a dire uno straniero o un matto, abbiamo allungato il passo. probabilmente c’è qualcuno che dà loro una mano, nel senso di un pasto caldo e probabilmente un posto dove dormire, sempre che per loro sia accettabile (credo che, tempo permettendo, dormirei fuori anche io). Penso che non si possa pensare di aiutarli con la logica di ripristinare quello che, formalmente, avevano, ma penso che invece si possa cominciare a restaurare quello che erano, cioè, che sono. comincerei col sedermi sulla stessa panchina e parlare, non necessariamente chiedere, magari raccontare di te oppure dire cose strampalate. hai l’aria di uno che può tirare fuori qualcosa di buono, da questo scambio, nel senso che non sembri uno che si mette lì a dire le paroline buone e di circostanza, che se fossi una come loro troverei penoso. che dici, ti va di togliergli l’invisibilità per un po’? potrebbero avere molto da darti