« I fianchi dell’Ararat alzavano nella notte un muro di piu` di cinquemila metri, nuvole parigine correvano sopra una luna di seta. Schiacciando la sabbia, le ruote facevano un interminabile e profondo respiro mentre i ricordi della dura Anatolia si scioglievano come zucchero nel te`. » Che dire di questo passaggio dal Caucaso all’altopiano iranico? Sembra di esserci. Nicolas Bouvier e` cosi`.
Non una parola di troppo, una voce leggera che va senza forzare il ritmo. E poi la precisione degli aggettivi, le immagini che restano scolpite senza bisogno di iperboli, l’attenzione spasmodica all’acustica
e al profumo dei luoghi.
Eccolo il piu` bel libro di viaggio del XX secolo e uno dei massimi capolavori dell’epoca. E ` L’usage du monde, tradotto come La polvere del mondo, un testo che ho quasi imparato a memoria e ho consumato fin a staccarne le pagine. L’ho portato spesso nei miei viaggi come livre de chevet, e in casa e` sempre li`, sul comodino, dove confesso di aprirlo a caso nelle notti insonni solo per arrendermi al respiro del viaggio, quella ricerca di un Altrove perduto che e` metafora perfetta della vita, e che viene – penso – dalla nostalgia oscura di mondi lontani da cui sentiamo di provenire.
Con la mia compagna-reporter, Monika Bulaj, ho disputato per anni su chi di noi per primo avesse parlato all’altro di Bouvier.
Poiche´ siamo entrambi viaggiatori, ciascuno di noi fieramente rivendicava la primogenitura di quell’illuminazione letteraria, ma poi ci siamo arresi alla constatazione che ciascuno di noi aveva fatto la scoperta per conto suo, che poi e` la sola cosa che conta. Prima di passare all’originale francese, ho letto questo libro cosi` tante volte nella prima edizione italiana che, quando la Diabasis ne ha utilmente revisionato la traduzione, ho avuto difficolta` ad abituarmi alle parole nuove. Mi era accaduto solo con un altro testo: Moby Dick di Melville, libro che aveva scatenato in me un attaccamento furioso a un’edizione tascabile Rizzoli anni Sessanta. Le ero cosi` affezionato che non volli sentire parlare di altre versioni e la rilessi fino a ridurla a brandelli.
Di Bouvier ho amato l’infinita tenerezza dello sguardo verso i
popoli piu` diversi. Sentite come l’autore svizzero descrive i m&ælig;stri turchi sulle montagne asiatiche. « Con caparbia d’artigiani », scrive, « essi lavoravano quella contadinaglia anatolica nodosa, reticente,
ma in fondo avida d’imparare, che e` la forza del p&ælig;se.
Piu` lontano, in angoli ancora piu` sperduti, minati dalla neve o dalla tubercolosi, altri colleghi in situazioni ancora peggiori lottavano per strappare la gente di campagna alla sporcizia, alle superstizioni crudeli, alla miseria. » Erano gli anni Cinquanta, e l’Anatolia « stava vivendo la civilizzazione dei m&ælig;stri di villaggio, della scuola elementare, della pagella… Non esisteva forse in Turchia un mestiere piu` ingrato, e piu` utile ».
E poi, alla partenza notturna da Istanbul verso il Caucaso, ecco il saluto alla vecchia Wanda, venuta dalla Polonia, padrona dell’alberghetto dove lui e Thierry Vernet, compagno di viaggio e illustratore inimitabile del libro, hanno passato alcuni giorni del mese d’ottobre. «Ci vide, disse ’Che Dio vi benedica piccioncini’, poi si mise a parlare in polacco… con inflessioni di una tenerezza cosi` desolata che ci occorse del tempo per capire che non ci guardava piu`, e non si rivolgeva piu` a noi, ma a una di quelle ombre antichissime, e care, e perdute, che accompagnano le persone anziane in esilio. »
Tenerezza di parole, ma anche tenerezza di lingua, resa con metrica ineguagliabile, al punto che la traduttrice italiana Maria Teresa Giaveri riconosce che il libro e` un « viaggio nella scrittura » prima ancora che « una scrittura di viaggio », una « lezione di misura oltre che di scoperta ». E poi l’esotismo dei p&ælig;si lontani « cancellato dall’attenzione alle dimesse liturgie del quotidiano », l’attenzione ai particolari. Lo svizzero Bouvier e` per me l’estetica del poco e del frugale che diventa anche sistema di viaggio, un modo per concentrarsi su quello che conta.
Immagini fulminanti. Ecco per esempio l’incontro notturno sulle strade dell’Hindukush con cavalieri armati di moschetto che scortano la jeep reale di ritorno da una battuta al muflone.
« Le domande rauche dei cavalieri e il nervosismo dei cavalli suggerivano la marcia prudente di un gruppo di viaggiatori attraverso frontiere poco sicure. Eppure la vallata era tranquilla; ma, da che esiste il trono d’Afghanistan, quelle precauzioni sono di rito, e permettono a un re su tre di morire nel suo letto. In un p&ælig;se di passioni in cui l’attaccamento alla terra, la rivalita` delle tribu` e il far dello delle vendette fanno mettere mano ai fucili in un attimo, e` difficile regnare senza ’prevenire’ un po’, ma poi ogni avversario eliminato vi mette fra i piedi tutto un clan di vendicatori. »
E ancora: « Non si deve credere che l’Islam, su queste montagne, sia tanto attaccato alla terra e al successo terreno. C’e` invece
un’insaziabile fame di essenzialita`, alimentata senza sosta dallo spettacolo di una natura dove l’uomo appare un umile accidente, e dalla sobrieta` e lentezza di una vita, in cui il frugale uccide il meschino…
L’Allah u akhbar, tutto si risolve in questo: un Nome la cui magia basta a trasformare il nostro vuoto interiore in spazio, e quest’ampiezza divina che, a forza di esser scritta in calce sulle tombe o urlata dai minareti, diventa davvero proprieta` di ognuno…
Fatto che non impedisce, naturalmente, l’inganno, ne´ gli eccessi di violenza; ne´ le risa salaci che fioriscono allegramente sulle barbe ».
Michel Le Bris, il « Grand patron » della letteratura di viaggio europea, lo scopre per caso nel 1960, dimenticato su una bancarella lungo la Senna, e viene immediatamente folgorato da una delle frasi di apertura: « Si crede di fare un viaggio, ma e` piuttosto il viaggio che vi fa, o vi disfa ». E ` un caso letterario, perche´ il testo semplicemente non e` stato letto, e Le Bris provvede a lanciarlo, non senza fatica, sul mercato francese. « Capita spesso che un libro vi illumini, tanto esattamente esso si accorda con cio` che stavate cercando nel mondo… Ed ecco, L’usage du monde e` stato questo per me. »
« Il fuori guarisce », dice Bouvier. Il fuori ti strappa dall’inutile sondaggio dell’insondabile, in fondo all’anima. Ma il « dentro », la libreria del viaggiatore, e` l’altro polo del vivere dove le folgorazioni del mondo diventano scrittura, la fabbrica dove una folla di libri si agita e si sporge dagli scaffali, si impossessa di te indicandoti altre direzioni. I libri ti possiedono, talvolta ti minacciano, e non importa, dice Le Bris, che siano scritti da filibustieri o acchiappanuvole, se sono serviti a costruire il tuo immaginario. Non e` un caso che l’atto piu` doloroso di chi parte per esplorare terre lontane non e` tanto il distacco dagli affetti, ma l’abbandono del Libro, il padre che ti ha indicato la strada. Dev’essere un saluto pieno di cautele, scrive ancora Le Bris, perche´ « non si sa mai di quali vendette siano
capaci i libri ».
Ecco, con L’usage du monde ho provato appunto questo. Il timore superstizioso di separarmene a ogni partenza per terre nuove, la paura di fare a meno di un breviario che mi aveva aiutato a crescere e orientarmi nel tempo e nello spazio. In Bouvier ho trovato conferme di cio` che stavo cercando da tempo e di cio` che avevo trovato negli anni. L’alleggerimento del bagaglio che diventa lezione di stile e preludio al piu` misterioso dei viaggi, quando si va nudi e soli oltre la linea d’ombra, senza conoscere ne´ lingua ne´ terreno.
Il godimento di attimi effimeri che hanno un’intensita` superiore a quella dell’amore. E quell’insufficienza centrale dell’anima da cui
parte il nostro desiderio di andare.
pubblicato per gentile concessione di Longanesi, tratto da I libri ti cambiano la vita. Cento scrittori raccontano cento capolavori, a cura di Romano Montroni.
grazie, lo leggerò senz’altro. ri sfogliavo proprio l’altro giorno il libro fotografico Gerusalemme perduta a firma tua e di monika bulaj. per me che non prendo l’aereo questo genere di libri sono una salvezza. ma ora penso a quello che mi ha cambiato la vita, ecco, trovato, ora ne scrivo
Il libro dev’essere senza’altro splendido. Ma era tanto che non leggevo una recensione tanto bella e struggente.